Le cantine
di Giovanni Buzi
Il villaggio
era arroccato su un alto sperone, le costruzioni più antiche
erano di tufo, una roccia porosa, viva che cambia colore a seconda
dell’ora, del tempo, delle stagioni. Nelle albe di primavera
si tingeva del rosa chiaro dei boccioli, coll’alzarsi del sole
si faceva vellutata come un’albicocca, al tramonto sfumava in
un’unica tonalità tra l’arancio e l’oro.
D’estate, il sole bruciava ogni mezzo tono riducendo le costruzioni
un geometrico incastro di luci ed ombre. Sembrava una montagna su
cui avesse infierito la lama tagliente d’un ciclope. Ma all’imbrunire,
col dissolversi della violenza della luce, quella montagna ferita
si stagliava contro il cielo fattosi all’improvviso d’un
turchese immateriale e assumeva la trasparenza d’un enorme diamante.
A contatto della pioggia i muri sembravano diventare piombo, bevevano
ogni goccia rilasciando un forte odore di metallo. A tarda primavera,
sull’intero paese sembrava calare una cupola di cristallo che
imprigionava una luce di smeraldo. Gli alberi prendevano un po’
delle tonalità del tufo, i monti dell’azzurro dell’aria,
il cielo del grigio argento degli ulivi, mentre dagli avvallamenti
del terreno, dai dirupi s’alzava leggero, appena visibile, un
pulviscolo verde blu.
Nel blocco di tufo che sostiene il villaggio erano state scavate stalle
e cantine. Alcune recenti, altre risalivano a molti secoli prima,
non poche erano state tombe etrusche. Verso i primi di dicembre da
queste cavità proveniva un odore acre che sembrava materializzarsi
in effluvi violacei. L’intero paese ristagnava dell’odore
del vino nuovo. Fermentava in grandi botti, molte scavate nella viva
roccia. Era un odore intenso, penetrante che impregnava ogni cosa
e non temeva né vento né pioggia.
In quel periodo i giovani maschi venivano presi da una sorta d’euforia.
A gruppi si riunivano nelle cantine per festeggiare il vino nuovo.
I più anziani si ricordavano che così già facevano
i loro nonni e i nonni dei loro nonni. Le riunioni iniziavano all’imbrunire
e potevano durare per l’intera nottata. Poche cantine erano
provviste d’elettricità, per far luce s’utilizzavano
lampade a petrolio e candele. Dove si mettevano le candele; un angolo
d’un tavolo di legno massiccio, nicchie scavate nelle pareti,
vecchi tinozzi inutilizzati, col tempo si formavano cattedrali in
miniatura di cera fusa. Le cantine più grandi s’incuneavano
nelle penombre e sembravano proseguire giù fino alle viscere
della terra.
La prima volta che ricordo mio padre condurmi nella nostra, mi vedo
restare bloccato sulla soglia. Non osavo oltrepassare la porta, un’alta
e massiccia porta di legno coperta da chiazze di muffe verdi celeste
rigate da numerose scie iridescenti lasciate dalle lumache. Sembrava
una membrana viva, un tessuto carnoso. Al di là, una barriera
di penombre e un forte odore che mi portava stranamente alla mente
quello del sangue coagulato.
Per ammazzare le galline mia madre le sgozzava infilzando nel collo
le forbici. Io dovevo aiutarla tenendo in alto le zampe dell’animale
che cercava di divincolarsi. Mia madre con una mano immobilizzava
le ali e con l’altra squarciava il collo. Sul marmo grigio del
lavandino scorreva un liquido caldo, denso, d’un rosso quasi
nero. Afferravo con forza le zampe che come le ali tentavano di liberarsi
con violente scosse. Che la gallina morisse me ne importava poco;
mica potevamo mangiarla viva? E poi le galline e i polli erano animali
così tonti, tutto il giorno a beccare a terra con quello sguardo
ottuso, non m’erano mai stati simpatici. Non erano come le oche
e le anatre che non sembravano essersi rassegnate alla rinuncia del
volo. A volte, in pieno pollaio, senza ragione, prendevano a correre
tentando il decollo con potenti, goffi svolazzi.
Dove volevano andare? Cosa le spingeva ad abbandonare il loro destino
d’animali ben pasciuti per essere sgozzati nel lavandino? Non
era la sorte delle galline e dei polli che mi preoccupava quando avevo
le loro zampe strette in mano. Temevo i brividi d’agonia. Quegli
strattoni disperati che attraverso le braccia mi si propagavano per
tutto il corpo. Si rendevano conto solo in quel momento di ciò
che avevano perso? Il cielo aperto, il colpo d’ali che solleva
e riempie il respiro. Nati per volare, non s’erano mai staccati
da terra. E per cosa? Beccare semi e vermi, ingrassarsi per poi riempire
lo stomaco di chi li teneva prigionieri.
Un odore nauseabondo di sangue e viscere accompagnava il rilassarsi
delle zampe. Chissà perché, era quell’odore che
ritrovavo sulla soglia della cantina? Un sapore di muffe, intestini
e rosso coagulato che t’investiva come una folata di vento.
- Vieni, disse mio padre porgendomi la mano.
Rimanevo immobile, incapace d’entrare in quel mondo d’ombre
e fetore. Mio padre accese una candela in cima ad un’arzigogolata
piramide di cera fusa. Presero consistenza un vecchio tavolo, ragnatele,
barili, una serie di grandi botti allineate contro le pareti.
- Vieni, ripeté.
Feci un timido passo.
- Senti l’odore del vino nuovo?
Le parole rimbombavano contro il tufo delle pareti, del pavimento,
del soffitto. Sembravano provenire dalle profondità della terra,
articolate da un mostro sotterraneo. Non risposi. Restai con lo sguardo
fisso verso quel vuoto che assorbiva nelle ombre la prospettiva delle
botti allineate.
- È grande la nostra cantina, vero?, continuò con una
nota d’orgoglio nella voce.
Perché aveva detto nostra? Che c’entravo io con quel
mondo oscuro, d’eco, di puzzo di sangue e viscere?
- Hai proprio perso la lingua oggi!, rise. Non avrai mica paura?,
continuò dandomi un’occhiata che si voleva severa.
- Usciamo, dissi.
- Allora è vero: hai paura.
*
Quando il paese
s’impregnava dell’odore del vino nuovo i giovani maschi
venivano presi da una strana euforia, del tutto incomprensibile
per noi bambini. Si vedevano passare all’imbrunire con gli
occhi brillanti, si chiamavano l’un l’altro dalla strada:
“Marco, scendi!”, “Stefano viene?”, “Sì,
è andato a chiamare Augusto”.
Perché erano tanto eccitati? Dove andavano? Veramente in
quelle cantine mal odoranti e umide o in qualche luogo meraviglioso
a noi ignoto? Cosa ci poteva essere d’interessante nel rinchiudersi
in quelle caverne buie che puzzavano tanto? Avevano sottobraccio
rotoli di carta. Lo sapevamo, contenevano pizza bianca con olio
e rosmarino, salsicce da arrostire, prosciutto, mortadella, porchetta
ancora calda. Quella sì, era buona! Fumante, profumata d’aglio,
alloro e finocchio selvatico. La carne morbida, saporita, la crosta
croccante del colore di miele condensato! Si riunivano in gruppi
d’una decina attorno ad una tavola. Scartavano la porchetta
che faceva venire l’acquolina in bocca e andavano a riempire
la prima caraffa. Si dirigevano verso una botte a caso e facevano
sgorgare il vino. Quando una botte era scavata nella roccia, sembrava
che il vino zampillante fosse il sangue stesso del tufo: rosso brillante,
profumato.
|