L'aquila

di Annalisa Rossi


 

Che città asmatica!
Francesco,seduto davanti alla finestra del suo ufficio, sorrise alla signora Fissore che s’affannava allo sportello nel tentativo di spiegare all’impiegata che dieci lire lei non poteva pagarli per spedire le medicine a Dogliani, ma che suo figlio doveva averle. A tutti i costi. Era malato. Glielo aveva scritto. Aveva preso la pioggia per tutta una notte e tossiva. Colpa di quella tota(1) lì. L’impiegata, tota anche lei, mostrava un interesse alquanto professionale. La lasciava parlare.
Francesco ascoltò la cantilena ritmata che ormai capiva assai bene: 20 anni di Piemonte lo avevano allenato a tutte quelle vocali dolci così chiuse e a quelle S e Z addolcite, ai monsu(2) e ai ciarea(3).
A 70 anni suonati Francesco era ancora un uomo forte, grande di mani e d’acuto intelletto.
Nella cittadina piemontese non si era mai integrato del tutto. Da 20 anni dirigeva l’Ufficio Postale. Il suo ultimo figlio era nato lì. Lo rispettavano tutti: faceva parte di quella categoria di persone avvolte in un alone di leggenda.
Si diceva che fosse lì in punizione, lui direttore delle Poste di Tripoli, per non aver ritirato un esposto a Italo Balbo, l’allora prefetto di Libia. Qualcuno mormorava anche che mai avesse preso la tessera del fascio, ma che, nato a due passi da Predappio e conoscendo il Duce fin da piccino, non aveva mai subito rappresaglie pesanti, riuscendo persino a mantenere un posto nella Pubblica Amministrazione.
Francesco sorrise, scuotendo il capo. D’altronde sapeva benissimo che quei piemontesi dai nomi strani (Fissore, Boglione, Sartori- tutti ex bottegai!- che diamine!) dovevano per forza costruirgli intorno una storia: lui era uomo da storie.
Peraltro gli impiegati lo conoscevano bene e sua moglie, malgrado non parlasse ancora con un degno accento italiano, parlava. Mio Dio! se parlava! altroché se parlava! Parlava sempre. Parlava troppo. Parlava male. Anche di lui!
Francesco sogghignò al pensiero di quando Madama Genta lo aveva visto tornar da Torino, in quel lontano ’39, inverno freddissimo, e lo aveva spiato salire le scale con la coppia di cocorite africane, che, aveva detto piangendo madamin(4) Pina, costavano come il palazzo dove abitavano.
Chissà, poi, come aveva goduto, nella sua bottega di sementi a piano terra, quando lo aveva sentito urlare e dare di matto,perché la femmina era morta- in quel maggio freddo!- : non si seppe mai se per l’incuria di Dolores, la sua figlia maggiore, che non aveva mantenuto abbastanza caldo l’ambiente, o se- come sospettava Francesco- stroncata da un “ITALIANI!” di troppo alla radio
Di sicuro la Genta aveva informato mezza città di come, calatosi il cappello- un vecchio Borsalino nero- sugl’occhi, fosse uscito, gettando fiamme da ogni pupilla e giurando di abbandonarli tutti, di non tornare mai più, con la Pina che piangeva con l’uccello morto in mano, ferma sul pianerottolo.
Si ricordava ancora, Francesco, di quel giorno in ufficio: aveva persino maltrattato quel povero postino nuovo che si chiamava Barbero- che lui chiamava, scherzando, il Barberino, senza che nessuno capisse la battuta- che poi, partito per la Russia, non era tornato.
“Muoiono tutti,uomini e animali”- pensò Francesco, che le cocorite le aveva davvero pagate come il palazzo dove abitava.
Amava gli uccelli, li aveva sempre amati.
Da bambino, a Sant’Arcangelo di Romagna,lo chiamavano il rozzo d’uzello , perché ai giochi chiassosi dei coetanei e dei fratelli preferiva la piana, alla ricerca di nidi, per guardare da vicino il mistero di quei voli, di quegli equilibri così alieni a lui, bambino costretto a terra.
S’immaginava come potessero vedere la terra di lassù, passeri, rondini e falchetti che sapevano sfruttare così bene tutte le correnti.
Il grande amore, però, lo colse all’improvviso, come sempre succede, di lì a qualche anno.
Suo padre, Direttore della scuola elementare, quando Francesco aveva otto anni, fu trasferito a Matera, dove sua madre- quella Elisabetta, che poi suo padre venerò come santa per tutta la vita, ma che per lui rimase per sempre un profumo di latte e vaniglia- morì, dando alla luce un bambino già morto.
Francesco non riuscì mai a capire suo padre. Non capì mai perché non volle più lasciare quel posto. Avrebbe potuto sfruttare l’amico De Amicis per andar verso Nord, tornare in Romagna, ma lui si rifiutò, ostinato, di lasciare quella città di sassi, per non abbandonare senza un custode il corpo della bella sua Betta.
Francesco non capiva l’amore o- almeno- non quello assoluto così!
Tanto più che quella caparbietà paterna li costrinse tutti a un Sud che nessuno di loro amava davvero.
Se ne andò, prima, l’ Italia, sposa a un baronetto locale. Grande pranzo fu quello! Francesco se lo ricordava tutto, malgrado fossero passati sessantuno anni e dell’Italia non sapesse più nulla da dopo la guerra. S’era sposata, diciannovenne, con un debosciato, ma ricco. Gli aveva fatto una dozzina di figli, tutti rossi di capelli- a meno: così gli aveva scritto, perché lui era arrivato al terzo dei figli, prima di partire per Napoli, per l’Università.
Ma forse l’Italia era morta- che diavolo!- avrebbe dovuto avere adesso almeno novant’anni compiuti!
Suo fratello Umbertino- quell’ INO stava perché, pur essendo il più vecchio dei maschi, aveva della bella Elisabetta fattezze e natura d’uccello-, andato a Palermo, per diventare avvocato, un anno dopo l’Italia sposata, s’innamorò d’un francese, ma un conte, e veleggiò con lui per le terre d’oriente. L’ultima volta che scrisse, in piena guerra, era al Cairo. “Povero Umbertino -disse suo padre -in mezzo a tutti quei mamelucchi!”. Al che il Libero, il maschio che veniva per ultimo, gridò sorridendo” Che facciano attenzione a lui, piuttosto, i mamelucchi. L’Umberto non è poi così schizzinoso!”
Il Libero aveva gridato da sempre. Era lui l’unico, vero, romagnolo di casa. Aveva sei anni in meno di Francesco, una larga mascella, naso dritto, capelli d’un fulvo leone e occhi raggianti di forza.
Diventò il gerarca fascista di Reggio Calabria
Era lui che conosceva bene Benito. E fu lui a salvare Francesco dalle ire di Balbo. Fu lui a implorare soltanto un rimpatrio immediato e un “confino” lontano.
Fu lui che dirottò i controlli per quella mancata tessera al fascio, che nessuno, in famiglia, mai prese. Fu lui che morì, combattendo convinto, per fermare gli Americani in Sicilia.
Il Libero, tutto fiamme dannunziane, che suo padre irrideva da buon risorgimentale pragmatico.
Il Libero, che s’innamorò come un bambino di quella sartina - o modista- di Napoli, che sposò di nascosto a suo padre. Il Libero, che partì per la guerra, insieme a tutti quei matti esaltati, sulla scia del Vate. Il Libero, che , infuriato, tornò dal Carso con due dita in meno, ma che diceva d’aver lasciato in culo agl’austriaci.
Tornò a casa, quell’anno, anche l’ Eria, la seconda femmina, che stava - Bha!- in un posto imprecisato tra l’Italia e l’Umberto.
Suo padre, al vederla, così bianca e minuta, con gli occhi verdissimi dell’Umbertino- che erano quelli di Betta, la bella- si commosse fino alle lacrime. gli sembrò Elisabetta rinata.
Fu per quello che la vampirizzò, che la costrinse, malgrado il numero di spasimanti, a rimanere zitella. “Madonna ladra!-gridava il Libero, che voleva farla sposare a un suo amico, medico di provata fede fascista- Madonna santa! Eriuccia, ma mandalo a quel paese, ma mandalo!!”
E lei rispondeva sommessa, bisbigliando “Eh! No, come faccio? Gli son già stata tanto lontana!Poi, sai, mi ha fatto studiare! Gliene devo esser grata!”, perché Eria era rimasta a Forlì in un collegio di monache ed era diventata maestra.
Fu subito assunta dal comune di Matera, che col Direttor Federico c’era poco da fare.
Vabbè! era una donna, ma figlia, e nubile, del Direttore .
Francesco scostò la tendina: pioveva. La stufa, caricata a carbone, mandava un odor di miniera.
Nelle gabbie, appese al soffitto del suo Ufficio, i rarissimi pappagallini del Madagascar sussultarono, inquieti.
Francesco trillò, con le labbra socchiuse: loro guardarono giù. Di quei sei che gli rimanevano, ce n’era una , quella col becco più chiaro e le penne sempre arruffate, che girava la testa in un modo che gli ricordava la Pina da giovane.
Era bella la Pina. Una fata,!
Quasi bella come l’aquila legata in quel giardino di Napoli che lo innamorò.
A Napoli era andato col Libero a cercare pensione, prima dell’Università.
Fu un caso se videro l’aquila.
Era alta, in mezzo a un cortile, con la zampa al ferro, come un carcerato comune
Eppure era davvero una Regina. Prigioniera, ma pur sempre Regina.
Il Libero quando la vide gridò, sprezzante “Guarda che grande!, ma sta serva ad un uomo!”
Francesco, quasi piangeva. Tornò tutti i giorni a spiarla. Sapeva che Lei lo vedeva. Durò per tre mesi. Poi la Signora sparì. Di lei non seppe mai nulla di più. Fu lì che decise che un giorno avrebbe volato con un uccello così.
In quella Napoli di fine secolo non c’era facoltà di botanica o di veterinaria: le due sole che Francesco avrebbe potuto amare. S’iscrisse a Legge e s’annoiò a morte.
Poi conobbe Marino Lo Cascio, Grand’Ufficiale del Regno, margravio - così l’apostrofava Francesco( parola che l’altro ignorava, ma che, sembrandogli bella e importante, se la lasciava affibbiare)- delle Regie Poste Italiane. Gli procurò un impiego. Tanto così, per mantenersi.
Almeno: questo fu quanto scrisse alla Eria e a suo padre. Al Libero confessò il suo sconforto e gli confidò di voler raggruzzolar qualche lira, per poi partire in America.
Ma fu mandato a Messina, già direttore, o, meglio, come allora si diceva, Appaltatore Postale.
Messina era bella e incantata, su un mare di lapislazzulo scuro, profumata, dalle donne opulente.
Francesco conobbe qui Amalia e Amalia conobbe Francesco.
Aveva trent’anni, Francesco, Amalia meno di venti. Vendeva caramelle di zucchero a mezzo centesimo l’etto. Francesco ingrassò qualche chilo. Amalia lo sposò un anno dopo.
Sua suocera- non aveva mai capito, Francesco, se vedova giovane o grande puttana- morì con sua figlia e il nipote, due anni dopo, quando Messina collassò su se stessa nel grande terremoto del 1908.
La notizia raggiunse Francesco a Palermo, dove, invitato da Libero, era andato a veder parlar Marinetti.
Partì, subito, in treno,poi a dorso di mulo, a piedi l’ultimo tratto. Ci impiegò cinque giorni. La città ancora fumava di polvere e degli ultimi fuochi. Una puzza tremenda.
Un coro impossibile di voci, impressioni di volti , mani, mattoni e bestie ferite o azzoppate.
Si fermò ad un isolato dall’Ufficio Postale.
Sentì un lamento, come un guaito o un pianto di bimbo, da dietro una porta staccata.. Scavò con rabbia, con vuota incoscienza, fino a farsi sanguinar braccia e mani.
Lo trovò ansimante, una zampa spezzata, ma vivo, già magro di suo, un randagio.
Il dolore lo avrebbe di sicuro accecato di rabbia. Francesco arrotolò la giacca al braccio per evitare il morso che sarebbe arrivato a tirarlo fuori di lì.
Invece no.
Quel bastardo era molto più intelligente di quello che dava a vedere- d’altro canto era sopravvissuto e cresciuto in una città d’affamati e da cinque giorni resisteva, impavido, al dolore ed a un terremoto- Francesco lo sollevò piano. Il cane guaì appena.
Fu Diaz, per sempre.
Non cercò, invece, sua moglie e suo figlio. Diede appena un’occhiata alle ferite dei muri, conscio che eran mortali.
Diaz partì con lui, la gamba steccata e lo stomaco pieno: lo amò per diec’anni.
La guerra passò su Francesco, senza toccarlo. In famiglia l’eroe già c’era.
Tornò a Matera, col cane, la sorella maestra e il padre demente. Furono anni bellissimi.
Insegnò per circa sette anni ai bambini.
Il Signor Maestro. Tutti pensavano fosse un po’ tocco per via di quel cane che viveva con lui e con il quale parlava.
Francesco raggiunse quarant’anni da solo, ma era bello. Un uomo alto, dal fisico asciutto, con occhi verdissimi. Intagliava presepi di legno a traforo. Il parroco diceva che aveva doti d’artista.
Fumava soltanto toscani. Era famoso al bordello. Tutti i mercoledì riceveva un gruppo d’amici(farmacista, dottore, notaio) per un giro di carte. Quasi sempre facevano l’alba.
Fu in una di quelle serate che il farmacista Di Nardo gli raccontò della bella Andalusa ventenne, figlia di un suo cugino di Pueblo, anche lui farmacista, che il padre non riusciva a sposare, perché il suo figlio più vecchio s’era sparato.
A Francesco piacque la storia- gli erano sempre piaciute le storie!- e divertito gli disse” E faccetela venire!”
S’interrupe di colpo- a quell’ espressione così vivida nella memoria perché gl’aveva cambiato la vita- il flusso dei suoi ricordi.
La madama Fissore stava piangendo.
Francesco s’alzò: glieli avrebbe prestati lui ‘ste dieci lire basta che la facesse finita.”Madamin- l’apostrofò, con quel suo accento d’Ulisse di paese-non s’accori così. Signorina, li metterò io ‘sti soldi, ma il Tonio, se torna, mi deve un favore: ho giusto due o tre cose da fare e un trespolo grande là alla salita degli Orti, all’utin(5)!”
L’utin era un pezzo di terra con un ciabutin(6) -tutto INO, come l’Umbertino- dove Francesco andava di domenica pensare, a guardare gli uccelli e, da qualche mese, a studiare il disegno, dell’ala del grande Leonardo, che con infinita pazienza aveva copiato per giorni a Torino, alla Gran Biblioteca, e che ora stava disteso sul tavolaccio di legno, dentro al ciabutin.
Francesco sorrise di nuovo: chi aveva detto che il più grande non può star dentro al più piccolo?
Madama Fissore intanto si sprofondava in inchini “ Ma sa, direttore, monsu,che lei l’è propî ën brav’om(7). Di certo il mio Tonio tornerà per costruirle ‘sto trizolo, basta che lei c’abbia i disegni. Lo sa che lui è intelligente e capisce. Si fidi che glielo dico non appena ritorna”
Partirono le medicine. Il “trizolo” poteva ancora aspettare. Erano decenni che aspettava.
Sentì, per un attimo, un solo secondo, il peso degl’anni.
Sogghignò in faccia alla morte, che di certo stava già ad aspettarlo, le orbite vuote e il ghiaccio alle mani.
Ebbe un brivido.- Accidentaccio!- ‘Sto Coke che mandavano, chissà da quale “perfida Albione” veniva : non scaldava, o era lui ad avere sempre più freddo?
S’alzò per andare a controllare i postini. C’erano alcuni reclami e qualch’ingiunzione ancora da consegnare. Ma dov’era Giachino? Lo chiamò a gran voce, la sua voce tonante, da potente baritono, unica eredità in comune col Libero.
Corse Giachino, biondo e rubizzo, con le mani grassocce sempre sudate.” C’a cumanda, monsu!”(8)
“Quante volte t’ho detto di non divider la posta: la ingrassi! Piuttosto: dai carbone alla stufa, fa freddo!”.
Giachino era sempre sudato, anche d’inverno non metteva le maglie. D’estate pativa le pene di tutti gl’inferni. Non discusse, perché da vent’anni serviva quell’uomo diverso da tutti.
Se qualcuno chiedeva perché mai il monsu tenesse tutti quegl’animali così strani e ridicoli, che non servivano a niente, lui rispondeva, seccato,: ”Il monsu direttore non è che sia strano, è solo che viene da tanto lontano. Ha visto dei posti che neanche le Masche san dove stanno!” e se gli altri insistevano ancora, Giachino, per farli tacere del tutto diceva: “Pensate che una volta mi ha fatto vedere le foto- dico le FOTOGRAFIE ( che lui chiama foto)-ma vere!- di donne che sembravano nere di pelle.! Quelle faccette nere lì, lui proprio le ha viste e anche FO-TO-GRA-FA-TE ! Il monsu!” Allora tacevano tutti.
Da uno che faceva le FO-TO-GRA-FIE alle negre d’Etiopia o di Libia (nessuno sapeva quale differenza ci fosse) ci si poteva aspettare di tutto, compresi quei cani col muso schiacciato, che lui chiamava cinesi, anzi no, pechinesi: anche lì non c’era poi tanta distanza.
Negli ultimi anni, in effetti, subito dopo la guerra, Francesco aveva conosciuto uno strano studente di Legge, sfollato da un posto vicino ad Alessandria, figlio di uno di quei casinè (9)ricchi dell’oltrepo’. Fu lui ad andare a Milano a comprargli Regina e Cavour, i due primi. Poi vennero gli altri : sette in due anni.
Fu una fatica tremenda a dar loro i nomi..
I suoi figli, i quattro che gli eran rimasti su dieci che ne erano nati( 6 li aveva uccisi la gastroenterite sul suolo di Libia, compresi i gemelli, quelli che arrivarono a ben cinque anni e che aveva chiamato Patroclo e Achille) non volevano i cani.
Vittorio, il bello, anche lui affiliato ai fascisti, laureatosi in Lettere alla Regia Facoltà di Torino, non valeva un unghia del Diaz ,il suo primo nero bastardo.
L’anno prima, a trentenni, aveva trovato una ricca, più vecchia di lui. L’aveva sposata e viveva a Torino, in collina d’estate e in centro d’inverno. Scriveva ogni tanto. Diceva di fare qualcosa del tipo “ rappresentante di polveri mediche”.
Dolores, la grande, aveva sposato un ebreo. Li avevano deportati insieme, senza che il Libero potesse far nulla, in un campo, al di là di Trieste. Era tornata da sola. Distrutta.
Aveva mani d’artista, quella figlia legnosa e scontrosa, malata nell’anima. Faceva ricami che parean dipinti. Le grandi signore venivan da lei con teli di seta, di lino e cotone pregiati. Lei guardava e diceva:” Su questo faremo dei fiori d’un azzurro pulito, come il mare d’estate”
“Quest’altro diventerà un intarsiato tronco di palma, marrone e dorato, come la sabbia di Libia”
E loro accennavan di sì, non capivano, ma la lasciavano fare. Sapevano che il risultato sarebbe stato un incanto. Lei ricamava e fumava, nazionali senza filtro, e alla fine lavava i ricami insieme a sua madre, per togliere loro l’odore di fumo. Fumava e tossiva, sempre più spesso e beveva caffè, quando c’era (ma c’era sovente per il “sciur diretur”), insieme a sua madre.
Francesco non riuscì mai a capire come fece a sposare di nuovo quel ragazzo , di ben dieci anni più giovane, con quel grande palazzo, laggiù, verso Asti.
La stufa di nuovo eruttò un vapore di fumo, che agitò i pappagalli. “Giachino! ‘Sta stufa
bofonchia !” . Corse Giachino, anche se non capì quel”bofonchia” sapeva soltanto che munsü aveva qualcosa contro la stufa.
“Andate pure. E’ mezzogiorno. Tornate alle due”. Gli impiegati lo guardarono grati. Uscirono. Lui chiuse la porta. Fuori era tutto d’un grigio autunnale, anche se s’era già a marzo del millenovecentocinquanta.
Ancora le donne s’attardavano in strada. Passavano lesti gli impiegati di banca nei pastrani un po’ lustri. Qualche operaio delle concerie, finito il suo turno, tornava, passando dal centro, su una bicicletta un po’ sghemba.
Sua figlia, la Ada, la professoressa, girò l’angolo della via Cavour, dove c’era il negozio di Girani che vendeva cappelli. Camminava veloce. Somigliava a sua madre, solo molto più brutta. Però, quella sì, che era intelligente!
Rise di cuore, Francesco, pensando a Giachino il giorno- erano ormai dieci anni!- quando gli disse che l’avrebbe mandata a Torino, a fare l’ U-NI-VER-SI-TA’.
Erano gli anni quaranta
Era iniziata una guerra : ma sarebbe stata veloce, insieme alla grande Germania. E lui- nus sniur!(10)-voleva mandare una donna -anzi no!- una RA-GAZ-ZA a Torino, a studiar MA-TE-MA-TI-CA, che persino il figlio di Sartori, l’ingegnere, se n’ era guardato.
S’immaginò che cosa avesse dovuto inventare Giachino per giustificarlo.
E lei? Quella scema?
Era di nuovo dovuto andare a Torino, col treno, in uno di quei pomeriggi nebbiosi, a prenderla, a trascinarla via dal Maria Ausiliatrice, dove voleva diventar suora. SUORA: SU-A FI-GLIA!!!!
E quella più intelligente!!!
Ma –ahimè!- un anno di disintossicazione in famiglia, bevendo caffè con sua madre non sortirono affatto l’effetto dovuto.
E dopo il quarantatre nessuno s’arrischiava a viaggiare, ad andare lontano da casa.
Partigiani, tedeschi e quella terribile notte quando la gente assaltò la caserma Trevisan, abbandonata dagli ufficiale e le truppe!.
Lui li spiava dalle imposte socchiuse, sorseggiando il caffè della Pina. C’erano tutti: servi e padroni.
Lui guardava estasiato quella strana commedia sul Pasch, la piazza dove s’apriva il suo grandissimo alloggio: alle persiane teneva attaccate un centinaio di gabbie di canarini.
La Pina diceva il rosario con Ada,in latino. Dicevano una sacco di castronerie, e lui ci godeva, pensando a quanto dovesse incazzarsi quel Dio, che voleva sua figlia, a tutte quelle idiozie.
Raoul, il più piccolo, già nato a Bra, aveva dormito per tutta la notte, malgrado il bordello.
C’erano diciotto anni tra lui e Dolores, la prima. Allora pensava che sarebbe stato un piacere vederlo aprirsi alla vita, malgrado la guerra, malgrado la fame e le annonarie, malgrado ‘sti tedeschi di merda, malgrado i fascisti.
Perché, in fondo, lui, l’Ufficiale Postale, il figlio del Direttore Didattico- gran schiatta di buoni burocrati!- era un anarchico nato e tale era rimasto. Anche se non lo sapeva.
Fu quell’anno che comprò il pappagallo. Magnifico. Era l’unico termine che gli s’addiceva.
Gli dissero che aveva sessant’anni: lui sette di più. Si chiamava Giacobbe. Lo mise su un trespolo grande, in cucina. - “ Con te non se ne puote più” – gridava la Pina, facendo quel suo strano aromatico caffè arabo, nel quale metteva uno zucchero dal sapor vanigliato, che lei preparava e su cui manteneva un rigoroso segreto. A Francesco piaceva, perché gli ricordava sua madre, e lasciava gridare la Pina.
La Pina. Ne aveva viste la Pina con lui! Mio Dio! Non osava nemmeno più urlarle dietro qualche nomaccio. Non ne aveva diritto. Compiva, quell’anno, a dicembre, cinquantasett’anni.
Era bella! Una fata!. In trent’anni, all’incirca, lui l’aveva ridotta a una vecchia sformata, che puliva le gabbie dei suoi canarini
A Tripoli, invece, dove eran stati unidici anni, -lì sì!- era stata una vera signora. Avvolta di veli, in mezzo alle serve, ai mille profumi sfornava due figli in un anno, ma non s’era mai lamentata.
Anche lui lì era stato felice. Aveva un cortile pieno d’ animali, che mai aveva visto in Italia,
ma l’uccello, l’upupa, fu la sua grande conquista. Al mattino si svegliava e lo guardava nella immensa voliera: incredibile e saggio, voltava la testa ogni volta a guardarlo. Lo fissava, intenso, con un occhio per volta, poi ricominciava a mangiare, sdegnoso, sdegnato.
Fu l’unico che liberò, prima d’essere rimpatriato dall’oggi al domani per non aver ritirato l’esposto a Italo Balbo. Non l’avrebbe mai fatto, anche a costo di rovinarsi del tutto: chi era quel tronfio tacchino, che tutti osannavano come grande aviatore, che cosa poteva saperne, quell’oca giuliva, lui, delle piume d’uccello?
Tutti gli altri, i bambini, la Pina, insieme agli animali, che lui aveva così raccomandato, imballata la casa, s’imbarcarono un buon mese dopo.
Ci fu una tempesta tra Tripoli e Napoli. Il carico venne buttato a mare.
Sbarcarono a Napoli, la Pina coi suoi tre bambini e quattro valigie. Senza casa e animali.
Francesco li attendeva sul molo. Già sapeva del suo destino: al Nord, lontano anche dall’amata Romagna. Li vide scendere soli. Lei, nel suo strano italiano, peggiorato da sette anni di arabo, l’informò d’essere senza più niente.
Lui si girò: guardò sperduto û ciello e Napule.
La lasciò sul molo con i tre bambini. Camminò tutto il giorno. Dal Vomero al porto tornò solo la sera: lei era lì ad aspettarlo. Con niente. Tre bambini e quattro valigie.
Lui aveva cinquantaquattr’anni. Lei venti di meno, ma dietro ai fianchi un poco sformati e il lungo vestito di mussola nera, lui le scorse negl’occhi l’antico splendore, di quando la vide dieci anni prima, seduta su quel canapè del Di Nardo.
Anche lei, come Betta la bella, era minuta d’ossa come un uccello. Ma se sua madre era stata un parrocchetto colorato, la Pina era un passero nero. Umidi gl’ occhi da pettirosso spaventato,neri, lunghi, lussureggianti i capelli, che la coprivano tutta, invadendone ogni anfratto del corpo,un rosso amaranto la bocca, un naso perfetto, d’opale la pelle .
Mai si sarebbe aspettato tutta quella grazia di rondine in una donna sola. Si sposarono tre mesi dopo: lui vedovo d’anni, un cane e un padre imbecille, una sorella maestra e zitella; lei che non parlava italiano, ch’avrebbe potuto esser sua figlia, un fratello suicida.
Tante volte Francesco ci aveva pensato: se ‘sto scemo non si fosse ammazzato, il suo passero nero qualcun’ altro più giovane l’avrebbe involato.
Scrisse subito al Libero, già gerarca fascista. Riprese il suo posto. Per due anni diresse l’Ufficio Postale di Napoli. Nacquero lì i gemelli e poi anche Dolores.
L’Africa arrivò l’anno dopo.
Il treno li portò a Bra , nei primi mesi del millenovecentotrenta. Un amico del Libero gli aveva affittato un alloggio enorme, luminoso, nella piazza più grande.
Quante gabbie d’uccelli ci sarebbero state!
E, in effetti, ci stettero sempre, e anche i cani, che vennero di lì a poco.
Prima un bastardo minuscolo e furbo, che la madama dei semi voleva ammazzare. Poi Badoglio ( detto Baddi, perché nessuno ne intuisse il nome all’intero), raccolto morente sulla salita che andava a San Michele.
Venne anche Dulcinea, che trovò la strada da sola, perché i cani captano prima degl’altri animali dove c’è un amico sincero. Risolse il problema delle figliate( due maschi e una cagna) con il sistema dei cammellieri, imparato anni prima: tre sassolini piccini e ci si toglie il chagrin, come dicono qui.
Imparò in fretta , Francesco, la scostanza fredda di quella gente cortese e silenziosa che lo guardava “di strano”. Il suo più piccolo nacque. Anche lui in un giorno di pioggia e di neve, il ventinove febbraio, dell’anno millenovecentotrentadue.
-“Sciur diretur, l’è masch”(11)- gli disse il dottore ( “Ma da quando si fa venire il dottore, per una faccenda di donne?”- diceva intanto la Genta, di sotto)
-“ Sua fumna a l’à dime ch’a völ ciamelu cun en nom da baraba”(12)- scandalizzò il prevosto, in fretta accorso( i bambini si battezzavano subito, perché tanti ne morivano in fasce. Lui intanto pensava ai suoi tutti marciti in terra africana: di sicuro all’inferno del preive(13), perché mai battezzati!)
Girandosi, Francesco lo fulminò cogl’occhi. Aveva ancora dei lampi efficaci. Si ritrasse il prevosto.
Dolores entrò col bambino dicendo “La mamma lo vuole chiamare Raoul, come il suo fratello defunto.”.
“ E sia”-annuì Francesco, irridendo il prevosto.
Fu in Municipio che non gli accettarono il nome perché era straniero .Così il piccolo fu Raoul in Chiesa e Antonio al Comune. Che beffa!. Francesco, da buon romagnolo, aveva sempre amato le beffe!
E anche adesso, che vedeva sua figlia, la Ada,- che s’era poi laureata, dopo la guerra e insegnava alle Medie, che non s’era mai fatta suora, ma camminava ingrugnita - gli pareva una beffa: Una beffa a quel dio- boia d’un mondo!( perché boia d’un cane!, non l’avrebbe mai detto)!- che gli aveva giocato così tanti tiri mancini.
Ada si fermò e bussò ai vetri “ Non vieni a casa a mangiare?”. “No, resto. Ho da fare. Dì a tua madre che vengo alle quattro per il caffè!”
Francesco la vide annuire e riprendere il passo.
Non andava più a casa per pranzo, da quando Giacobbe era morto
Si massaggiò la nuca là dove il rostro durissimo del pappagallo l’aveva incrinata e quei cretini dei medici dell’ Ospedale per prima cosa avevano ucciso l’uccello, ancora col becco piantato ben dentro alle ossa del cranio, che era soltanto impaurito.
All’Ospedale in sei l’ avevan portato: la Pina che urlava; Oreste il meccanico delle lambrette che aveva messo l’Ape; suo figlio, che teneva ferme le ali all’uccello; la Genta che gli asciugava il sangue che gli colava nel collo con duemila Madonne, mentre Ada, agganciava il telone dell’Ape- perché come sempre pioveva- e poi si sedeva davanti, vicino all’Oreste. Nessuno riuscì mai a capire come fece il piccolo Franco- il figlio del General Rota, che stava nell’alloggio lì sopra- a salire anche lui su quell’Ape.
Così finì Giacobbe con un colpo alla nuca , infante, di sessantatre anni. Francesco se la cavò con trentasei punti in testa e un altro sogno morto in braccio. La Pina fece caffè per tre giorni.
La Genta sostenne che tanto più matto non poteva diventare.
Giachino veniva ogni giorno, da bravo sergente, a portare i dispacci a firmare al sciur diretur.
Fu in quei giorni d’oblio che Francesco sognò l’aquila napoletana. Fu allora che prese forma il suo piano. Fu allora che ricordò la promessa.
Dopo tre giorni s’alzò. La suora l’aveva detto alla Pina : “ Con un colpo alla testa così, non si può dire: ci voglion tre giorni. O va o sta! “
Francesco s’alzò, urlò di caffè e canarini, chiamò a sé i cani, mise in moto le donne.
La Genta da sotto commentò dignitosa: “ L’è sempe sta mat, d’ pi, a ven nen!”(14)
Boglione, il padrone di una conceria ,con cui ogni tanto Francesco parlava di fotografie (–perché fin dalla Libia amava quest’arte e nel grande alloggio di Bra aveva allestito una camera oscura: Scattava e sviluppava da solo. Fotografava, ovviamente, solo i cani e gli uccelli. Una volta la Pina da giovane, una volta tutti i suoi figli- ) venne a trovarlo.
Fumarono a lungo profumati toscani. Al Boglione sembrava di essere fuori dal tempo. A Francesco di non essere vivo. L’indomani andò a lavorare.
Scoprì dai giornali che avevano aperto un processo in quel di Norimberga ai gerarchi nazisti.
La notizia lo lasciò indifferente. Quando, invece, aveva letto di piazzale Loreto a Milano, aveva provato pietà per Claretta. Aveva sempre pietà per i deboli, lui.
Arrivò come un turbine all’Ufficio Postale.
“ A la sta mei, sciur diretur?”(15) gli chiese Giachino guardingo, a nome di tutti.
“ Ma certo! Ma certo! .Ci vuole ben altro a piegar uno come me!”
Annuirono tutti, un po’ compiaciuti di lavorare per un così incredibile uomo: anche loro rivivevano nell’aura di lui.
Controllò ogni cosa. L’esperienza e gli anni gli consentirono di fare più in fretta.
Si rinchiuse in ufficio. Studiò la piantina del Comune di Bra e decise per la salita degli Orti: un punto un po’ in alto, sufficientemente a strapiombo, ma con dentro, per forza, un ciabot
“ Giachino!”- tuonò.
Il malcapitato, che nell’ultima settimana d’assenza del sciur diretur(16), s’era appropriato di quattro sacchi di Coke, tremò al pensiero che lui, il direttore - che nemmeno ‘sta bottazza alla testa aveva ammazzato!- li avesse contati ‘sti pezzi di Coke ed ora chiamava a rapporto.
Quell’aprile ancor si gelava. Pioveva. Giachino entrò nell’ufficio smanicato, grondante sudore e paura.
Da dietro la scrivania, lo sciur si girò, vestito di nero, la benda alla testa ancora intrisa di sangue, un buon metro e ottanta d’altezza, gl’ occhi che mandavano lampi. Giachino tremò, sicuro che questa volta l’avrebbe mangiato. Ma Francesco sorrise e gli disse, quasi mellifluo:” Voglio un utin sulla salita degl’ Orti, con un ciabutin. Lo compro. Subito. Vai!”
Giachino richiuse la porta. Sentì per la prima volta nella sua vita un freddo tremendo. Si mise il pastrano. Uscì in silenzio, benedicendo il signore. S’incamminò in via San Rocco. Raggiunse via Umberto. Salì verso la Croce.
Tornò, però, subito indietro in Via Vittorio. Gli era venuto un lampo di genio. Giorni prima al mercato qualcuno diceva che Magliano della ferramenta voleva disfarsi d’ un pezzo di terra - ma ch’a valia mica gnente!(16) - abbarbicato com’era in mezzo ai roveti, là su, sopra il Piroletto.
Giachino, arrivato alla porta della ferramenta, si fermò un poco incerto. E se era una storia? Il vecchio Magliano, sanguigno com’era, l’avrebbe mangiato anche lui!
Tra i due mali scelse il minore. Entrò e, rispettoso, chiese al vecchio canuto e curvo, al di là del bancone,del pezzo di terra.” Te, i soldi, mica ce li hai, Giachino!”- lo irrise il Magliano.
“Ah!, mica parlo per me E’ lo sciur diretur che lo vuole!”
A Magliano luccicarono gl’occhi.. “Digli che venga, che ne parliamo!”.
Fu uno scontro di Titani. Giachino assistette, senza forze, in un angolo, dentro il buio negozio.
Si lasciarono a sera, Francesco e il Magliano, con una stretta di mano, dopo mille scintille.
Zavattaro, il notaio, ratificò l’atto, scuotendo la testa e pensando “A sun tüti mat, propî mat!!!”(17)
I soldi passaron di mano davanti al notaio, rigorosamente in contanti.
Francesco, radioso, s’arrampicò, il giorno stesso, fin su, da dietro, arrivandoci da sopra al Balau.
AH! , un vero nido d’uccello. Non un rumore. Limpidissimo il cielo.
Cominciò a ripulire le erbacce e i roveti. Alla sera era stanco. Faticò a ritornare. Ci vollero almeno quattro caffè della Pina a rimetterlo in sesto.
Il giorno dopo convocò in ufficio Giachino, a gran voce:”Va a reclutarmi qualcuno che m’aiuti all’utin!”. Giachino obbedì. Un mese dopo - e dieci pappagallini del Madagascar in meno- Francesco prese pieno possesso del ciabot e della terra. Tre mesi dopo, cioè sei mesi prima d’adesso, fu informato dal figlio di Boglione, il Giovanni ingegnere, che a Torino, nella Gran Biblioteca, si potevan vedere i disegni del grande Leonardo.
Telefonò a suo figlio Vittorio. Lo spaventò a morte. Erano anni che non gli scriveva ed ora si serviva di quel mezzo moderno solo per dirgli che sarebbe stato a Torino da lui due o tre giorni!
Partì, solo, in treno, in un mattino nebbioso dell’ottobre del millenovecentoquarantanove, dopo aver bevuto una cuccuma intera del caffè della Pina.
Il suo figlio più piccolo aveva lasciato quell’anno il Liceo, per andare a fare il “cronista alla radio”. Che andasse!,il cretino! Francesco cominciava a stancarsi del mondo.
Arrivò a Porta Nuova. Erano anni che non vedeva così tanta gente. Si perse in mezzo alla folla: almeno qui nessuno lo guardava perché portava un paltò anziché un tabarro!
Lì vicino c’era subito via Della Rocca. S’orientò in fretta, lui che il mondo l’aveva girato.
Suonò. Venne ad aprirgli sua nuora : quella gelida donna alta, la fronte aggrumata in eterni pensieri di beneficenza. “Sta bene, signore?”. “Papà -la corresse Francesco-”o, meglio, se vuoi, anche babbo!”
“Ma neh?, che stranezza?- lei gli rispose, cantilenando la frase- Siam parenti, eppure non ci conosciamo.” Francesco -la colpa era sua- non parlò.
Entrò, un poco a disagio nell’attico pieno di fiori. Almeno aveva buon gusto, sua nuora!
Suo figlio, tutto ben impomatato, lo fece sedere.
“ Devo subito andare- disse, adagio,Francesco- “Tornerò per la cena”.
“Ma, babbo, sei appena arrivato! Un caffè?”
“ No. Lo sai che prendo solo il caffè di tua madre!”.
“T’accompagno- che diamine!- . Ho giusto qui sotto la mia topolino”- s’offrì, premuroso,Vittorio.
Francesco, angosciato, s’alzò, quasi di scatto.
“No, no. Ti ringrazio, ma devo andare vicino!”.
Lei, la ricca borghese, lo guardò di traverso, un po’ sospettosa.
“ Te la sistemo io la roba, allora, babbo. O meglio, lo farà la Michela!”.
“Ah! Sì, grazie. Ma non darti disturbo, tornerò per la cena”
Scese di corsa le scale, e poi via, alla Gran Biblioteca. Sapeva la via, gliela aveva spiegata bene il Giovanni Boglione, ingegnere.
“Torino è una grande città”- pensò svelto Francesco, mentre quasi correva per via Carlo Alberto.
E poi ci fu solo l’emozione dei libri.
Lui era sempre stato convinto che i libri parlasser tra loro, di notte, raccontandosi insieme le storie di tutti. Là, nel silenzio dell’antro grigio, si fermò, reverente, come in un tempio.
“Signore! La posso aiutare?”- domandò assai gentilmente un ragazzo.
“Sì, grazie. Vorrei vedere i disegni del grande Leonardo. Sa quelli sull’ala!”
“Oh! Certo! Li abbiamo solo fino alla fine del mese.”
Seguendolo dentro il sancta sanctorum , Francesco si chiese come non facesse quel giovane a non sentirsi schiacciato dal peso di così tanta sapienza.
Arrivarono dentro una piccola stanza, con un tavolo e lampade strane.
“Li può consultar solo qui, dove c’è questa luce speciale. Allora che le porto?”
“Solo quelli sull’ala!”
Seguitò a copiar per tre giorni, zitto del suo segreto copiare, la sera, a cena, con quei due. Fu vago.
“Pratiche qui, in direzion regionale”.
“Ho cercato un collegio per Raoul, che vuole abbandonare la scuola.”
Ritornò col cervello in poltiglia per tutte quelle menzogne.
Ritornò coi regali di Laura e Vittorio per la Pina, per Ada e per Raoul, che furono aperti con gran gridolini. “Oh, mio dio!Un profumo francese!”. “Un paio di calze di seta!”. “Un portafoglio di pelle!”.
Lui zitto. Carezzò uno ad uno i suoi cani dal muso prognato. Spazzolò loro i peli. Pulì i canarini. Dormì come un ghiro. Il giorno dopo era domenica. Partì con grandi cartelle, con dentro i disegni, Cavour alle costole. S’arrampicò fino all’utin. L’inverno non lo spaventava. Anzi sognava di essere l’aquila napoletana, finalmente libera, nel suo nido elevato, e , al di sotto, un mondo di nebbia.
La Pina gli aveva preparato frittelle di zucca e torta di mele: da un po’ d’anni si trovava di nuovo di tutto!
Cavour avrebbe mangiato del pane raffermo, aveva ingiunto la Pina: i cani e gli uccelli costavano come un’intera famiglia.
Cavour mangiò le frittelle, Francesco la torta: il pane raffermo fu sbriciolato per i passeri, fuori al ciabot.
Francesco quel giorno studiò bene i disegni. L’ala, per sollevare un uomo di sessantotto chili, avrebbe dovuto misurare almeno 12 metri, ammesso che il peso totale non avesse superato quello del doppio dell’uomo: quindi anche lei al massimo doveva arrivare a sessantotto chili. Francesco doveva perderne almeno sei.
Come un rapace- ah! i falchetti della sua infanzia!- Leonardo le aveva pensate fisse le sue ali, perché veleggiassero in su alle correnti. Il pilota sarebbe stato, invece, appeso, sotto l’ala fissa, controllabile con delle funi.
Francesco si rilassò: due cose gli restavan da fare, studiare i materiali e trovare l’aquila.
Tornò più tardi, mezzo congelato. Ci vollero otto caffè della Pina per fargli riprender colore.
L’inverno, però, lo fermò. Morì Cavour in febbraio,tossendo sangue.
Francesco lo seppellì con Dulcinea e gli altri due nel giardino di Giachino. Piantò su di lui un glicine viola, procurato dalla madama Genta.
Arrivarono, finalmente, alle due, gli impiegati. Francesco sentì la via rianimarsi un poco. Guardò fuori e s’accorse che il sole era finalmente spuntato. La bella stagione sarebbe arrivata presto.
Quel giorno tornò a casa allegro. Bevve il caffè alla vaniglia alle quattro in punto, ma rifiutò i biscottini al cacao che gli piacevano tanto. Aveva deciso di cominciar la sua dieta.
Le donne si guardarono, costernate. Quattro giorni dopo madama Genta sentenziò che à smiava nen pusibile, ma ün mat, a pudia mni ancu pi mat.(18)
Di nascosto Ada fece venire il prevosto a benedire la casa, e, poi l’Ufficio Postale, dopo aver concordato con Giachino, un’azione notturna.
Niente da fare, quel diavolaccio che s’era impadronito di suo padre, non se ne andava, anche se tutti ‘sti chilometri che faceva ogni giorno, a piedi o di corsa – quell’ armamentario d’un vecchio!-, lo rendevano sempre più giovanile d’aspetto.
“A smia pì bel- commentò la Genta-Ma l’è mac pì mat!”
A metà maggio si presentò in Ufficio il Tonio Fissore, cercando il monsu.
Adesso a Francesco non mancava che l’aquila. Stava sveglio di notte a pensarci.
Ci voleva soltanto un miracolo.
A Tonio disegnò un trespolo grande da costruire.
Alla fedelissima postina Teresa fece fare incetta di garze al mercato. Gli servivan per l’ala.
Tonio, che voleva portare a termine in fretta il lavoro, perché cominciavano le feste di piazza, consegnò a metà giugno.
Giachino e Oreste con l’Ape trasportarono tutto all’utin (l’ultimo pezzo lo fecero a braccia), dopo solenne giuramento di non farne parola a nessuno e , meno che mai, alla Pina o all’Ada.
Un amico di Giachino procurò i giunchi. Francesco a fine giugno raggiunse i sessantasette chili di muscoli nodosi.
Era assolutamente e totalmente felice.
Rimaneva, però, il problema dell’aquila.
Luglio passò con i cani, all’utin, a costruire l’ala.
Pina faceva caffè sempre più buoni a Giachino, che li prendeva, taceva e la notte non dormiva più.
Ada arrivò a cinque messe al giorno.
“ Ma che fa?”- chiese una sera a sua madre.
“Quien sabe?”- rispose la Pina.(19)
Si fecero, quella sera, tutta la cuccuma di caffè. Fu lì che decisero di dire tutto a madama Genta.
La sguinzagliarono come un segugio. Lei non le deluse.
Fu un mistero come corruppe il piccolo Franco Rota e come quest’ultimo convinse Francesco a portarlo una domenica, coi cani, all’utin.
Tornò, raccontando dell’ala, coperta da un telo enorme, comprato a carissimo prezzo dal Borri.
Madama Genta, costernata, ma questa volta davvero preoccupata, non disse niente a nessuno.
Comunicò la notizia alla Pina, assente l’Ada, sorseggiando il secondo caffè.
Quella sera la Pina aspettò, sveglia, Francesco. Alle finestre i canarini dormivano, mentre i cani, accaldati, cercavano un po’ di fresco di sotto l’androne.
Francesco arrivò alle dieci. Salì le scale con passo pesante. Aprì la porta.
La Pina accese la luce e lo squadrò furiosa. Francesco capì che sapeva.
Non si chiese nemmeno chi l’avesse tradito.
L’aggredì per primo: “Non è come pensi: è solo il capriccio d’un vecchio, che si diverte a reinventare e a realizzare i progetti degli altri. Lo sai come sono!”.
Lei si quietò per incanto. Gli fece il caffè. lui si sedette un po’ stanco. Lei lo guardò, poi gli disse: “Nessuno, neanche Dio, può farti un caffè come il mio!”.
Francesco si vide costretto a darle ragione.
S’ era a fine di luglio. Allora nessuno andava ancora in vacanza.
Di sera la gente, però, usciva sugl’usci o in mezzo alle piazze.
Francesco continuava a non sapere dove recuperare l‘uccello.
Ci voleva un miracolo.
E accadde:
Si presentò, un mattino di martedì dell’ultima settimana di luglio del millenovecentocinquanta, direttamente all’Ufficio Postale, con le sembianze del molto giovane, ma già assai rispettato, dottore Panero.
“Ca senta(20), monsu, son stato ier sera dal padrone del circo che è fermo a Cherasco, per vedere un bambino. Mi ha chiesto se m’intendevo anche di bestie, perché avevano in gabbia un uccello malato. Ho detto di no- mi sun en medic!, ma d’omini(21). Poi mi son ricordato che Giachino, una volta, m’ha detto che Voi conoscete bene gli uccelli. Chissà, se volete andare a vedere?”
Francesco partì in bicicletta alle due. Arrivò dopo l’Arco, a Cherasco, alle quindici giuste.
Si presentò come l’esperto d’uccelli del dottore Panero.
Lo accompagnarono in mezzo alle gabbie. Francesco non alzò mai gli occhi da terra: non voleva incontrare quegl’occhi dietro le sbarre. Era anarchico in cuore.
Arrivarono. Lui la vide. Capì subito che quella era un’aquila: malconcia, decisa a morire, molto più piccola di quella napoletana. Tremò come colpito.
Il padrone del circo pensava che stesse morendo, poiché non mangiava da giorni. Francesco s’offerse di cominciare a curarla, ma era essenziale portarla in un posto che a lui fosse comodo. “Può venirla a riprendere da qui a un mese, se sopravvive”- propose. L’uomo si disse d’accordo.
Il giorno dopo si fece imprestare l’Ape da Oreste e, tutto solo, andò a prender l’uccello.
Lo liberò, a trenta metri dall’utin, dopo avergli legato una zampa con un laccio di cuoio. Sugli occhi, già al circo, gli avevano messo un cappuccio di pelle.
Trascinarla al ciabot fu un’impresa tremenda. Ci impiegò più di due ore. Là, il trespolo pronto, la issò quasi a peso, le legò la striscia di pelle al bastone. Adagio gli tolse il cappuccio. L’uccello era molto prostrato. Cominciò con la carne tritata e pietrine.
Gli ci vollero quindici giorni perché si fidasse di lui. Non portò mai più i cani. In ufficio era quasi febbrile.
Giachino diceva che per star bene, stava bene e sembrava anche un po’ rinsavito: aveva cominciato a mangiare tutti i giorni la carne!
“Ma va?”.
“Vun mi tüti i dì, dal maslè”.(22)
Il giorno di ferragosto la Regina aprì le ali e sbatté un poco il becco, quando Francesco arrivò.
Tutte le sere Francesco la ritirava dentro al ciabot. Al mattino, prima di andare in Ufficio, la portava già fuori. Arrivava sempre in ritardo. La tota impiegata sosteneva che avesse un’amante.
Giachino negava: “Ma a l’à stantequtrani!”(23)
“E lu sai, ma a l’è ‘l monsu o nèn?”(24)
Arrivò l’otto settembre. A Bra era festa. Tutti andavano al grande Santuario della Madonna dei Fiori, patrona di quella città.
Nello spazio adiacente alla Chiesa,nel campo di marte, bancarelle e giostre: un fiera di colori e di voci.
Ada e Pina, insieme alla Genta, partirono presto, eccitate. Francesco, prima che uscissero, le baciò entrambe. Salutò i cani e partì.
Era arrivato il gran giorno. In quella settimana aveva lasciato a Giachino una lettera da spedire a Vittorio: era il più vecchio dei figli e le tradizioni andavano ancora rispettate.
Gettò un occhiata al Pasch. Un vento leggero, non freddo, ma già un poco autunnale, scuoteva i platani antichi. In tanti lo salutarono dal Pasch ai Battuti Bianchi, la chiesa di mattoni rossi, secentesca, bellissima, che s’apriva, prima del Piroletto.
Salì con il solito pacchetto di carne, meditando che tra lui e la Signora, alla fine, solo quello sarebbe stato diverso. Francesco non mangiava mai carne.
Quando arrivò, la Regina gracchiò quel suo verso tra il rauco e l’acuto, ch’era il suo saluto.
Lui trascinò fuori il trespolo. Poi scoprì l’ala.
Con estrema fatica l’alzò. S’imbracò, con le gambe all’ingiù, com’era nel disegno del grande Leonardo. Prima aveva sciolto il laccio di pelle alla grande Signora.
“Andiamo”- le disse, invitandola da dietro la grata di giunchi, legati con garze.
La Regina stupì. Sbatté l’ale. Provò, timorosa, a distender gl’artigli. Lo guardò proprio dritto negl’occhi e, forse, vi colse l’invito
Francesco avanzò incespicando verso la rocca già immersa nel sole. Guardò su verso il cielo, e, muovendo le funi, con uno strido d’uccello felice, si slanciò nell’azzurro. La Regina non si fece pregare. S’alzò in volo a raggiunger quel “coso” sospeso.
Lo fissò allargando le ali. Ben ferma. Francesco aveva beccato una giusta corrente.
Volò qualche minuto con lei, che a lui sembrò eterno, prima di precipitare.

NOTE
1.In piemontese: signorina
2. “ “ :Signore, detto con rispetto
3.In piemontese è un saluto intraducibile,del tipo ciao, ma detto anche con chi non si ha confidenza
4.In piemontese si indicano col termine Madamin le donne sposate giovani, e con Madama quelle che sono o in età o hanno raggiunto la maturità. ma qui il fatto che alla Pina, malgrado già decisamente “matura” venga dato della “Madamin”, allude al fatto che era una donna minuta
5.In piemontese si traduce con “piccola vigna”, ma in realtà il termine è passato ad indicare quei piccoli appezzamenti di terra, che gli abitanti delle città, utilizzavano per fare l’orto o mettere qualche pianta da frutto. In genere si acquistavano appena fuori della città dove s’abitava, per essere comodi e potere raggiungere a piedi in fretta il proprio terreno
6. In piemontese indica quella casetta che i contadini costruiscono come ricovero per gli attrezzi
7.”Ma lo sa, Signore, che lei è proprio un brav’uomo?”
8.”Comandi, Signore”
9.Proprietario di cascina
10.-Mio Dio!, -Signor nostro!-
11.”Signor Direttore, è un maschio”
12. “ Sua moglie m’ha detto che vuole chiamarlo con un nome da senza Dio”
13.Prete
14.”E’ sempre stato matto, di più non viene”
15.”Sta meglio, Signor Direttore?”
16.Signor Direttore”
17.”Sono tutti matti, ma proprio tutti matti”
18.” Sembra più bello, invece è solo più matto”
19.” Che ne so”- spagnolo
20” Senta, signore….
21.-Io sono sì un medico, ma d’uomini!-
22. “Sono io che vado dal macellaio tutti i giorni”
23.” Ma ha 74 anni”
24.” Lo so ma è o no il Signor Direttore’”



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