Laura
di Tiziana Brancato
Continua
ad inseguire un sogno.
Ne afferra i lembi sfilacciati cercando di trattenerli, mentre il
suono insistente del campanello la trascina lungo il pendio del risveglio.
Rotola su un fianco, i piedi sul freddo del pavimento. Di mattoni
rossi. Muri bianchi, porte e abbaini rossi. Il campanello continua
a suonare, mentre lei attraversa la sua camera, la stanza di mezzo,
la cucina. Raggiunge il pulsante che apre il portone, in basso, spalanca
la porta e si siede un attimo, con indosso una maglietta bianca e
quel sogno leggero, dissolto come una nuvola sparpagliata dal vento.
L’ascensore, una macchina di ferro di cui si possono osservare
gli ingranaggi, nuda, offerta agli sguardi, non arriva fino a lei.
Corteggia i piani nobili di quel palazzo antico, con i soffitti immensi
e le finestre grandi. Poi si ferma. L’ultima rampa di scale,
quella che un tempo portava ai granai, si assapora a piedi. Sotto
il tetto c’è la sua casa con i soffitti bassi, e i lucernai
che si aprono sul cielo.
Laura ascolta il rumore stridente e meccanico degli ingranaggi. Primo,
secondo, terzo, quarto. Ha sonno, ha lavorato fino a tardi la notte
prima.
Scende i quattro scalini che portano al cucinotto. E’ una di
quelle vecchie case bolognesi in cui uno sgabuzzino viene adibito
contemporaneamente a gabinetto e luogo di preparazione del cibo. In
fondo alle scale, a destra, c’è un ripiano foderato di
piastrelle azzurre, con un fornello a gas, a tre fuochi. A sinistra
un lavello di graniglia, pieno di piatti sporchi, maleodoranti. Davanti,
una tenda a fiori nasconde un gabinetto e il contatore dell’acqua.
E’ il punto in cui il tetto spiovente si congiunge ai muri,
così che è impossibile stare in piedi. Solo seduti.
Sul gabinetto. E Laura si siede, guardando la carta igienica appoggiata
sul contatore dell’acqua, da cui parte un tubo incrostato che
si spacca di continuo.
La settimana scorsa si è allagato il cucinotto. Il padrone
di casa si ostina a mandare un suo amico, invece che un fontaniere.
L’impianto è tutto marcio, andrebbe rifatto, altro che
aggiustato. Pazienza.
Stacca un pezzo di carta igienica bianca, si asciuga, tira su le mutande
bianche, con una leggera sfumatura rosata regalata da un bucato sbagliato.
E’ andata bene, che il calzino finito tra le lenzuola non fosse
nero. Altrimenti le sue mutande sarebbero di un grigio perla inconsistente,
il colore sbiadito del cielo in un mattino d’autunno avanzato.
Il rumore dello sciacquone accompagna l’arrivo di Dario.
“Ci sei?”
“Sono qui, metto su il caffè.”
Insieme a Dario è entrato anche l’odore del fuori, del
freddo, del traffico dei viali di circonvallazione, di una sigaretta
fumata da poco, di un cabaret di bomboloni appoggiato sul tavolo.
Da dieci giorni i risvegli di Laura sanno di città e caffè,
di zucchero e pioggia.
Riemerge dai quattro scalini, i capelli arruffati, la maglietta di
due misure di troppo.
Un abbraccio, un bacio sulla guancia.
“Profumi di letto.”
“E tu di giacca a vento. Levatela, dai. Badami il caffè,
cambio l’aria in camera e mi infilo qualcosa. Ho freddo.”
Percorre a ritroso la strada per la sua camera, fermandosi ad alzare
la stufa a gas nella stanza di mezzo. Avrà bisogno di caldo,
tra poco.
Apre l’abbaino che sta sopra il suo letto. Spinge sulla lunga
asta di ferro bucherellata, lo incastra nel chiodo piantato nel legno.
“Una di queste volte si spacca.”
Prende un maglione nero, ampio, che le arriva alle cosce. Infila nei
piedi dei calzettoni di lana grigia, fatti a mano. E ritorna verso
il suo caffè.
E’ sveglia ormai, e comincia ad avvertire un brivido, come una
sottile striscia d’ansia che le solletica la bocca dello stomaco.
Sul tavolo due tazze bianche, essenziali, con una striscia di fumo
che sale, il barattolo dello zucchero, i cucchiaini. La carta con
il nome della pasticceria stampato in oro è in un angolo, insieme
al nastro dello stesso colore.
“Devi smetterla di rimpinzarmi di dolci. Sono ingrassata come
un vitello da latte.”
“Per quello te li porto. Bevo il caffè e vado a prepararmi.
Ti chiudo io la finestra. Mangia con calma.”
Il caffè scende caldo, un sorso dopo l’altro. Laura addenta
il secondo bombolone mentre la crema le cola tra le dita. Seduta con
i piedi allungati su una sedia, lecca accuratamente la crema dall’odore
di limone e i cristalli di zucchero appiccicati tra le pieghe delle
dita. Non c’è neanche il tempo per un bagno, nella vasca
con i piedi di ghisa. La sta aspettando, così com’è,
con ancora addosso la morbidezza del sonno.
La camera da letto è minuscola, lunga e stretta.
Incastrato tra due pareti, un letto matrimoniale con le reti un po’
imbarcate e i materassi di lana, sotto l’abbaino verniciato
di rosso.
In una delle pareti che lo racchiudono c’è una nicchia,
ricavata nel muro, piena di libri. C’è spazio sufficiente
anche per un registratore, una lampada, una pila di cassette e un
piattino bianco, con una candela mezza consumata.
Sulla parete opposta, di fronte al letto, c’è un cassettone
di legno a cui ha tolto i piedi la volta che se ne è rotto
uno. Appoggia sul pavimento di mattoni, senza sostegni o mediazioni.
Tra il letto e il comò c’è Dario, seduto, che
aspetta.
Laura si sfila i vestiti, in fretta, come un’armatura da gettare
lontano, in un angolo. E’ il momento più difficile, per
lei. Quello che fa da confine tra la normalità e il sogno,
tra il ruvido e il morbido, tra il caffè e il letto. Consuma
quel passaggio con gesti secchi, imbarazzati, ingolfati, trattenuti.
Le si impigliano i capelli nel maglione, la maglietta risale fino
al seno, sfila le mutande insieme ai calzettoni. Sente gli occhi di
Dario appoggiati sui suoi movimenti, sulle linee del suo corpo svelato.
Non riesce a guardarlo mentre si spoglia, deve aspettare di essere
nuda.
Si inginocchia sul letto.
C’è il sole, adesso, una striscia dorata che dall’abbaino
sfiora le lenzuola e il corpo di Laura.
Una carezza calda d’amore.
“Come vuoi che mi metta?”
“Sdraiati, a pancia in giù, come se dormissi. C’è
una luce bellissima stamattina, cerca una posizione comoda.”
Laura si sdraia, affonda il viso nel cuscino. I capelli scivolano
sulle spalle, sulla schiena, si assestano. Una gamba allungata, l’altra
ripiegata con un piede appoggiato dietro al ginocchio della gamba
distesa.
E’ immobile adesso, rilassa i muscoli del viso, chiude gli occhi
cercando di fissare ogni piccolo particolare sensoriale di quell’essere
ferma, come una statua. Ascolta.
Sente il suo alzarsi, il suo avvicinarsi.
Il cuore comincia a batterle forte, l’emozione la soffoca.
Lo sente vicino, armeggia con il registratore, sceglie una cassetta.
Laura ascolta il piccolo scatto della custodia che si apre, il rumore
strofinato mentre scompare nel registratore, il pulsante di avvio.
Concerto di Colonia. Keith Jarret. Chissà perché ha
scelto questa musica così appassionatamente struggente.
Lascia che le note le sciolgano il respiro, sente il sole sulla pelle
della schiena, tra le gambe socchiuse.
Dario si allontana di nuovo, con un attimo di esitazione, soffermando
un istante lo sguardo sulle pieghe di quel corpo abbandonato.
Si risiede, e inizia a disegnare.
Laura è immobile, in un mondo ovattato tra il sonno e la veglia.
E’ un corpo in ascolto. Sente la corsa della matita sul foglio.
Il primo schizzo è veloce, affrettato, come a voler cogliere
i contorni, l’immagine globale, l’idea di lei.
Fruscio di carta in movimento. Ha cambiato foglio.
La musica cresce, e con la musica una tensione sottile. La matita
scorre morbidamente, il tratto si fa gentile, accurato, attento. La
sente scivolare lungo la schiena, sulle curve dei glutei, sui nervi
e sui muscoli delle gambe, accarezzare le caviglie sottili, solleticare
le dita dei piedi.
Nessuno l’aveva mai esplorata così a fondo.
Nessuno così, senza mai sfiorarla.
Dario è assorto, trasognato, non guarda più il tempo,
i minuti ticchettano sul suo orologio. C’è una linea
che non riesce a fissare. Prova e riprova, gli sfugge tra le mani
la luce che la illumina. Non riesce a trasmettere al foglio l’ombratura
e il riflesso, che lo attirano come una calamita.
Si ferma, di colpo, con il respiro affrettato.
Quaranta minuti. Neanche alle professioniste si può chiedere
tanto.
“Laura, aspetta a muoverti. Fissa nella mente i punti di appoggio.
Alzati solo quando sei sicura che dopo li ritroverai. Facciamo pausa."
Disagio. Giunture doloranti. Ogni piccolo, piccolissimo movimento
si trasforma in corona di spine. Rientra nel suo corpo. Si raggomitola
adagio, raccoglie le gambe verso il petto. Poi si allunga come un
gatto, stira le braccia dietro la testa, sbadiglia, muove il collo,
stende le gambe, inarca la schiena.
Si mette seduta, infilando velocemente il maglione che aspettava per
terra, al bordo del letto.
Trema, ha brividi in tutto il corpo. Appena si muove è assalita
dal freddo.
Dario la guarda, sorridendo. Ha piccoli occhi nerissimi, ironici,
attenti.
“Tutto bene?”
“Più o meno.”
Sono terribili, quelle pause. Arrivano sempre quando le sembra di
non poter più stare immobile neanche un istante, eppure le
costa fatica uscire dal sogno, alzarsi, camminare, guardare Dario
negli occhi. E scoprire nel suo sguardo un’intimità sensuale
che la imbarazza.
“Una sigaretta?”
“Fumiamo di là, così non devo aprire la finestra.”
Si avvicinano alla porta. Si sfiorano appena, nel passaggio. Un piccolo
contatto, una scintilla, un battito di ciglia.
Da qualche giorno Laura avverte il cambiamento. Annusa il desiderio
come un miele lucente che la avvolge. Lo scruta nei disegni che le
mostra alla fine di ogni incontro. Sempre più morbidi, sempre
più intensi.
E ne ha paura. Di affrontare quel languore, quella voglia di abbandono
che la attira e la respinge, come un fiore dall’odore troppo
intenso.
“Riprendiamo?”
Di nuovo la stanza, di nuovo il maglione da levare. Lo sfila adagio.
Non ha nient’altro, questa volta, a coprire i suoi vent’anni.
Si sdraia, cercando di ricordare l’esatta posizione, le inclinazioni.
Assapora la pressione del materasso sotto il ginocchio, le braccia
sotto il cuscino, la morbidezza contro il viso. Esattamente dove l’aveva
già sentita.
Si sforza di ritrovare tutto come l’aveva lasciato.
“No Laura. Il ginocchio piegato, appena più avanti. Ecco.
Ferma adesso, è perfetto.”
Si immerge in lei, in quella piega morbida. Nel punto in cui la schiena
si divide in due lembi, si allarga, si riempie a formare la curva
dei fianchi e dei glutei. Soffici, invitanti.
Ne afferra la luce, questa volta. La cattura, la imprigiona, la accarezza
con la punta della matita.
Da anni non disegnava più corpi nudi, dai tempi dell’accademia.
E delle modelle sempre uguali, distratte, annoiate, pensierose.
Laura è morbida, con quei chili che sarebbero di troppo su
chiunque. E forse anche su di lei.
E’ riapparsa un giorno nel suo studio insieme a Marta, la sua
compagna di sempre, la donna con cui divide la vita dall’adolescenza.
Non vedeva Laura da due anni, e il bisogno di disegnarla si è
affacciato come da una finestra spalancata per una raffica di vento
impetuoso. E’ iniziato così, per caso, questo immergersi
nelle sue forme addormentate. Tra i suoi capelli sciolti, nelle pieghe
dei gomiti, tra le unghie delle mani, nell’attorcigliarsi delle
orecchie.
E nel desiderio prepotente di appoggiare le mani e le labbra sul suo
corpo.
E’ finito il disegno, più di così non può
andare avanti. Si alza, rimane un attimo in piedi a guardarla, in
silenzio. Si leva le scarpe, si inginocchia sul letto. La sua voce
è un sussurro.
Laura è immobile, sente la cartella dei disegni posarsi sul
cassettone, il cigolio della sedia abbandonata dal peso, il fruscio
di vestiti in movimento, il tonfo di un oggetto, poi un altro, sul
pavimento, i pochi passi, e l’inarcarsi del materasso ad accogliere
un altro corpo, caldo, vicino al suo.
Poi la voce, un sussurro:
“Rimani ferma, Laura. Voglio solo appoggiare le labbra su una
curva. Ho provato tutta la mattina a disegnarla. Fidati, non voglio
altro.”
Laura è immobile, con il cuore che batte sempre più
forte.
Vorrebbe scappare e rimanere, farsi sommergere e ritirarsi. Sente
il respiro che si avvicina, le ginocchia che le sfiorano il fianco,
la lana del suo maglione, il contatto caldo delle labbra insieme al
ruvido accennato della barba. Sulla sua schiena.
Lo sente tremare, scostarsi da lei.
Laura si alza, in ginocchio davanti a lui.
Nuda, di fronte ai suoi vestiti. Lo guarda con occhi di paura.
Lui la abbraccia, appoggia le sue labbra sulle sue, le schiude lentamente,
la esplora, cerca la sua lingua esitante, la cattura per un istante.
Lei sfugge. Appoggia la testa sul suo petto vestito, respira forte,
con il ventre liquido. Lo stomaco è un grumo pulsante.
“Non posso.”
“Per Marta?”
“Per Marta.”
La stringe, le accarezza la schiena e i fianchi, cerca i suoi seni,
li sfiora con le labbra, le bacia il collo, in preda ad una frenesia
senza nome.
Laura è di marmo. Gli occhi aperti, lo sguardo lontano. Non
lo respinge. Non lo accoglie.
Vorrebbe rovesciarla sul letto, entrarle dentro, sentirla urlare il
suo piacere, avere le sue mani che lo spogliano. Scioglierla da quella
lastra di ghiaccio che si è impadronita del suo corpo.
Le morde le labbra, una mano tra le sue gambe, tra le pieghe del suo
sesso bagnato, palpitante.
Lei non si muove.
Gli sembra di impazzire davanti a questo suo essere senz’anima.
Le prende una mano e se la appoggia sui pantaloni, sul suo desiderio
esplosivo.
Allora lei si muove.
Appoggia le mani sul suo petto, lo spinge piano, lo stacca da lei.
E lo guarda negli occhi.
“Non posso.”
Distoglie gli occhi, confuso, con il respiro affannato. Trema violentemente,
cerca qualcosa a cui aggrapparsi, per tornare indietro.
Lei gli prende una mano tra le sue, disarmata di fronte alla violenza
del suo imbarazzo.
“Scusa. Scusami. Sono un coglione. E’ l’ultima volta
che vengo, non posso più tornare.”
Si alza, i gesti nervosi, le mani sudate.
Laura lo guarda raccogliere la cartella dei disegni, infilarsi le
scarpe, annodare i lacci con lo sguardo basso, al pavimento.
Le dispiace, per lui.
Di non essere come la vorrebbe, di non poter far fronte a quel desiderio
prepotente, di sfuggirgli.
Lo guarda con rimpianto, mentre lui apre la cartella e guarda i disegni,
immobile.
Si siede sul letto, vicino a lei. Appoggia un disegno sulle lenzuola.
“E’ quello di oggi. Tienilo tu.”
La guarda, sorride nervoso, le accarezza una guancia con il dorso
della mano.
E rimangono così, a guardarsi negli occhi. Piccoli e neri,
quelli di lui, grandi e dorati, quelli di lei.
Dario si alza, attraversa la stanza di mezzo, la cucina, apre la porta.
Si volta solo un attimo, un cenno del viso, con il corpo già
proteso in avanti. Solo un istante, prima che la città lo inghiotta
di nuovo. Per sempre. |
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