Il serpente di mare

di Gabriele Lazzi


Da lontano, lontano, lontano, sembrava una nave.
Si vedeva solo una sagoma scura che si muoveva lentamente, dai contorni indefiniti e dall'aspetto imponente. Nessuno vi faceva caso, salvo qualche sguardo fugace di chi passava vicino al pino.
Da lontano, lontano, sembrava un mostro marino, un serpente di mare.
Si vedeva il movimento di una forma allungata che s’immergeva e riemergeva, lanciando spruzzi a intervalli quasi regolari. Si erano messi in tanti a guardare, a semicerchio sulla spiaggetta del villaggio, facendo commenti e ipotesi e ridendo di qualche battuta spiritosa. Dopo un po’ allungavano lo sguardo, talvolta, soltanto i bambini.
Da lontano sembrava un enorme giocattolo gonfiabile.
Perché era di vari colori, e sembrava avere, ma non si distingueva bene, delle scritte sui fianchi. Non poteva che essere dipinto: soprattutto gli occhi rossi, la bocca con i dentoni, le pinne verdi, la coda. Certo era proprio grosso. I bambini, non solo guardavano, ma aspettavano impazienti che venisse più vicino, per poterci giocare. Qualcuno dei genitori aveva promesso di andare a prenderlo.
Aveva ragione lontano, lontano. Da vicino era un serpente di mare.
Ci fu paura all'inizio, ma durò poco. Ci si accorse presto che il serpente non aveva alcuna voglia di sbarcare: se ne stava tranquillo in mare, quasi a pavoneggiarsi dei suoi colori sgargianti.
Allora le attività ripresero: fare il bagno, prendere il sole, cercare di pescare con la lenza e, ancora, mangiare tutti insieme, bere, parlare, cantare. Facevano tardi così tutte le sere, nell'atmosfera gioconda delle notti di agosto, in un posto caldo, su di un mare bello e quasi inaccessibile.
Ci fu chi cercò di avvicinarsi al serpente (ma non troppo perché, pur se non minaccioso, faceva sempre un po’ paura con la sua mole gigantesca). Altri giocavano con l'acqua, per fare spruzzi paragonabili ai suoi.
I bambini, insieme a parecchi genitori, si divertirono tutta una giornata a costruire sulla spiaggia un enorme serpente di sabbia, poi distrutto saltandoci sopra, tra le risate di tutti.
Poi venne l'esigenza di uscire dalla baia, con la barca a motore, unico mezzo per andare al paese vicino. Qualcuno doveva ripartire, tutti avevano bisogno di vino nuovo, di spaghetti e pomodori. Il guaio era che il serpente impediva alla barca di uscire, chiudendo tutto lo specchio d'acqua della baia.
Provarono ad uscire, prima da un lato, cozzando contro la coda, poi dall'altro, ma non osarono avvicinarsi troppo alla testa. Alcuni, più coraggiosi, andarono a nuoto, scavalcarono il corpo del serpente come fosse uno scoglio e furono di là. Ma, a che fare ? Non era arrivare al paese a nuoto. Così, dopo un po’, tornarono anche loro sulla spiaggia.
In una delle esplorazioni per cercare di aggirare l’assedio, la barca si rovesciò, forse per un movimento brusco di una delle spire del serpente. Nessuno si fece male, però si persero due orologi, i documenti della barca ed una cassa di bottiglie vuote. Da allora più nessuno pensò sul serio di andar via con la barca a motore.
Alcuni pensarono di andarsene da dietro, a piedi, anche se la baia era chiusa da pareti di roccia. I primi non riuscirono a fare che pochi metri, tornando presto, pieni di ferite e coi piedi doloranti. I secondi la presero più alla lontana, cercando di salire in diagonale dai lati estremi della baia. Provarono più volte, sospinti dagli sguardi apprensivi di tutti gli altri, che osservavano dalla spiaggia, in costume da bagno. In realtà nessuno disse mai "È impossibile", ma i tentativi si fecero più radi, meno seguiti, meno speranzosi, fino a cessare del tutto.
Un gruppo di torinesi disse che si poteva fare un fuoco per attirare l'attenzione e far venire qualcuno. Andarono su di uno spiazzo in alto, da dove si vedeva la costa per un largo tratto e fecero il loro falò. Lo fecero ogni mattina, e ogni sera, per diversi giorni.
La sveglia si spostava via via sempre più tardi, la colazione era sempre più lunga. Tutti si ritrovavano sotto le stuoie, il posto più ombroso, dove c'erano i tavoli, a bere il tè (il latte era finito da tempo). Lì rimanevano per gran parte della giornata.
Nel villaggio c'era un piccolo mobile-biblioteca con un centinaio di libri, ingialliti e senza le prime pagine. Quei libri passarono di mano in mano, letti un po’ da tutti. Prima i gialli e Topolino, poi Melville, Roth, fino a Svetonio. "Benito Cereno" fu un grande successo, molti ne discussero animatamente, una sera, fino alle tre. Fu discusso molto anche un libretto smilzo, una sorta di manuale che spiegava come defecare bene per rimanere sani.
Una ragazza di Ferrara, che era lì con un bambino, raccontò la sua vita a una di Milano, soffermandosi sull’ex-marito e sulla separazione. Anche un gruppo di romani cominciò a parlare della vita degli ultimi anni, rivelando antipatie reciproche che erano sempre rimaste sopite.
La maggior parte delle sere, però, non parlava nessuno. Si ascoltava la musica da un piccolo mangianastri, con qualche insofferenza. C'era chi aveva del fumo, che finì in pochi giorni, senza neanche tanto dividerlo.
Il pomeriggio, nelle ore più calde, c'era solo da dormire sulla spiaggia: lo facevano tutti, muovendosi poco e pigramente. Anche chi non si addormentava, stava in silenzio, immobile, con gli occhi chiusi, pensando sotto il sole in maniera sconclusionata, quasi fossero sogni. Dopo la cena, sempre più esile e rimediata, si andava via in silenzio dai tavoli, lungo il sentiero che porta alla tende, disposte su un declivio. Sempre senza salutare. Se qualcuno l'avesse chiesto in giro, avrebbe scoperto che quasi nessuno faceva più l'amore.
Uno dei torinesi disse: - Diamo battaglia -.
Si fece un censimento di tutte le armi: quattro fucili subacquei ad aria compressa, tre ad elastico, altri due inservibili, due fiocine, tre tridenti, molti coltelli, ma solo alcuni buoni. Quelli da cucina e le forchette non furono contati, ma dati ai bambini per arruolare anche loro nell'esercito di liberazione, senza che si facessero male.
Il torinese si nominò comandante, fece mettere tutti in fila, formò le squadre di combattimento, con vari compiti, a seconda della forza, del coraggio, di quanto sapevano nuotare. In un giorno di discussione si approntò il piano di battaglia, cui tutti contribuirono con qualche commento azzeccato e molte idee balorde.
Si sarebbero usati la barca rimasta, i due canotti, i materassini, le ciambelle. Si sarebbe attaccato dalla parte della coda, cercando di aprire una breccia con la barca. Contemporaneamente il grosso avrebbe attaccato dalla parte della testa per disorientare il serpente e fargli lasciare dei varchi o, meglio, per spaventarlo e farlo fuggire. Il piano fu perfezionato, ad ognuno fu affidato un compito, a qualcuno anche più di uno. Tutti andarono a sentire la riunione dello stato maggiore, in disciplinato silenzio, stavolta.
L'attacco fu fissato per l'alba seguente, alle cinque, appena faceva giorno. Tutti erano elettrizzati, c'era chi sognava gesta eroiche. Il bambino della ragazza di Ferrara, durante la cena, sbatteva continuamente sul tavolo forchette e coltelli, con un rumore della madonna.
Alle cinque mancavano solo in quattro: mandati a chiamare, arrivarono subito, scusandosi. Con un canotto e i materassini, i primi gruppi si avviarono in mare. La barca puntò decisa verso la coda, tutti i migliori si diressero verso la testa. La prima scarica di arpioni risvegliò il serpente, quasi addormentato, che si stupì e sbadigliò.
La ventata fece cadere alcuni, ma gli altri si slanciarono con le fiocine in pugno: da riva, trepidanti, i bambini facevano il tifo, invece di pensare a portare ai combattenti i cesti coi coltelli. La barca avvicinò la coda, e da essa partì un fuoco di arpioni quasi totale (quattro insieme). Il serpente, pur muovendosi, non lasciò alcun varco. Gli arditi, di fronte alla testa, continuavano a picchiare e colpire selvaggiamente anche in acqua, in un corpo a corpo spasmodico. Ma i risultati tardavano a venire.
Poi il serpente si girò e sputò contro gli arditi. La valanga d'acqua li spazzò via, facendo perder loro il senso del sopra e del sotto: convulsamente, nuotarono verso riva. Tutti gli altri li seguirono. L'armata tornava sconfitta sulla spiaggia. Nessuno era ferito, ma la sera, in tre, avevano l'influenza.
Anche chi non aveva letto "Benito Cereno", lo lesse nei giorni seguenti. I pomeriggi sulla spiaggia si fecero ancora più noiosi, i bambini diventarono sempre più uggiosi, piagnucolando irritanti praticamente sempre. Gli indisposti erano sempre almeno due-tre, i tristi molti di più. Un giorno ci si accorse che non si poteva più neppure giocare a carte, che si erano consumate del tutto.
Allora una signora milanese, guardando il mare, disse: - Il serpente non c'è più. - Nessuno ci fece troppo caso e tutti, dopo una rapida occhiata, si rimisero a dormire sugli asciugamani.
La mattina dopo la signora preparò le valige, rivestì il marito e i due figli, andò dal capo del villaggio e disse che partiva. Due ragazzi del villaggio li accompagnarono con la barca a motore, per poi tornare alla baia, portandosi dietro una seconda barca.
Il giorno dopo fecero i bagagli altre tre tende. Scoppiò un po’ di casino perché non si trovò una macchina fotografica e i partenti se ne andarono guardando in cagnesco i sospetti. Il gruppo di Roma e quello di Torino si salutarono cordialmente, scambiandosi indirizzi e numeri di telefono. La ragazza di Ferrara e quella di Milano andarono via insieme, per passare qualche giorno in campagna, dalla madre di una delle due.
Rimasero gli organizzatori. Ripulirono per bene i cessi, le docce, la cucina, le altre aree comuni. Smontarono e misero a posto tende e ombrelloni, ripulirono la spiaggia, inchiodarono le porte e le finestre, per proteggerle durante l'inverno. Se ne andarono anche loro e non sarebbero tornati che la prossima primavera. Tra poco ricominciavano le scuole.



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