"Caro
Babbo Natale" di Luciana Littizzetto
Io
vorrei che quest'anno per Natale tutti diventassero più
buoni e io più figa.
Se ti avanza tempo vorrei anche che facessi diventare un po'
più furbo il mio fidanzato ma se pensi che anche per
te, che sei Babbo, esaudire quest'ultimo desiderio sia proprio
una mission impossibol, buttami pure giù dalla canna
fumaria un attaccante giovane di 25 anni che mi accontento:
uno tipo Tacchinardi va già bene.
Se per caso, Babbone caro, nel tuo lungo andare lassù
sulle montagne, tra boschi e valli d'or, ti capita di incrociare
ad un autogrill i re Magi, avvertili che sto aspettando anche
loro, e mi raccomando: avvisa la stella cometa che siccome piazza
Statuto è sempre un carnaio, indichi pure il cammino
da via San Donato, quella strada stretta e intasata, dove i
pullman sono costretti a viaggiare sui muri come fanno i gechi.
Visto
che non ho il camino appenderò tre calze al termo del
tinello. Una contenitiva per l'oro, che a riempirla anche tanto
non si sfonda, una autoreggente per l'incenso così i
bastoncini profumati stanno su belli dritti e non si spezzano
e un fantasmino da mocassino per la mirra. E' piccino ma basta.
Mi risulta che la mirra sia un antibiotico. Quindi mi bastano
5 capsule, ciclo completo, 2 o 3 non servono... faglielo sapere
a Baldassarre.
Mio caro Babbo, non vedo l'ora di farti un po' di coccole. Se
vuoi ti preparo la vasca da bagno e la riempio di schiuma. Darti
una bella ripassata non ti farà male. Da che ti conosco
ci hai sempre lo stesso vestito e in più vai in giro
con 6 renne... non profumerai certo di gelsomino. Sotto le ascelle
mi sa che ti cresce il muschio da mettere nel presepe. Ora ti
lascio, caro Babbo Natale.
Se non puoi passare da me, fa niente. Mi han detto che la felicità
è dietro l'angolo, tu dimmi solo in quale isolato. E
se puoi, mandami comunque un pensiero, magari due cri cri e
salutami tanto quella Befana di tua sorella.
P.S.:
Ah, dimenticavo: se ti riesce mandaci di nuovo un po' di neve
che qui di bianco ci è rimasta solo la forfora.
Il
pensiero debole di Luciana Littizzetto
Articolo 1
Donne.
Giulive oche giulive. Parti buone delle mele marce che sono
gli uomini. Campionesse mondiali di miopia sentimentale. Mi
rivolgo a voi e in nome vostro supplico. Chiedo e invoco l'abolizione
e il divieto assoluto di vendita dei tanga in Italia. Uno stato
democratico dovrebbe tutelare la salute mentale della femmina.
Dovrebbe farsi carico di sciagure sociali di questa portata.
Perché i tanga, credetemi, sono un vero flagello per
i nervi. Sono un colpo basso al sistema nervoso. Tu prova ad
indossare un tanga. Due secondi e sglurb... non lo trovi più,
perché lui va giù, giù giù, sprofonda
come il filo per tagliare la polenta, si inabissa nel dirupo
delle chiappe e sparisce all'orizzonte.
Risucchiato
per sempre. Ma io ve lo dico col cuore. Un tanga inghiottito
dalle carni è in grado di togliere la voglia di vivere
tutto il giorno. Se, la mattina al posto della bella braga ascellare,
quella di cotone con il fiocchettino al centro, quella che era
rosa ma col candeggio sbagliato è diventata tortora,
e poi rilavata ha assunto un'inspiegabile tinta ardesia e si
è ammollato l'elastico, SE al posto della mutanda slandronata
in cui ci infili dentro la canottiera, tiri in basso e ci fai
sbucare due belle mezzelune, SE al posto di tutto questo, indossi
spensierata il perizoma, tu sei una donna rovinata, figlia mia.
Sei una femmina finita che passerà tutta la giornata
a disincastrarsi la filura e a suonare col mignolo l'aria sulla
quarta corda di Bach.
Il
tanga, lo dico con cognizione di causa, è un'arma di
distruzione di massa. Il tanga di pizzo poi, quello crivellato
di smerli, una vera piaga sociale. E' proprio lo strazio supremo.
Perché è urticante. Pizzica, irrita, punge. D'altra
parte, son anche 20 centimetri di filo spinato in mezzo alle
chiappe. Come indossare un gambo di rosa. Come infilarsi al
posto dello slip un gnocco di cuki alluminio. E l'aggravante
è che sti rosicanervi son pure cari come il fuoco. Minimo
20 euro. Al mercato qualcosa meno, se li compri di simil legno.
Altrimenti 20 euro.
Quaranta mila lire per un cordino. Per uno spaghetto alla chitarra.
Ma a me bastano due euro. Ma io con due euro mi compro un chilometro
di corda per le tapparelle e mi faccio le mutande come i lottatori
di sumo.
Ma
la tristezza vera consiste nel fatto che mentre noi puciunin,
per far le favolose soffriamo le pene dell'inferno, loro, i
maschi, sotto i calzoni cosa mettono? I boxer. Bastardi pidocchi.
I boxer. Mezzo metro di lenzuolo con il grande cocomero che
balla la lambada. I boxer. Una tavella di maglina molle con
la feritoia per le uscite di emergenza. Li odio. Noi dobbiamo
andare in giro con un filo del telefono al posto delle mutande
e loro belli comodi coi mutandoni da Stanlio e Ollio. Donne.
Fulgide stelle che rilucete nel firmamento delle idiote. Non
vale la pena. Non volete desistere? Allora proverò per
voi una pietà infinita.
Il
pensiero debole di Luciana Littizzetto
Articolo 2
Lavorare
stanca. Se poi, a peggiorare la musica, ci si mettono anche
le colleghe è la fine. Piuttosto che varcare la soglia
del tuo ufficio preferiresti di gran lunga spalare il letame
anche tu nella Fattoria, gomito a gomito con Daniel Ducruet.
Tutto pur di non rivedere ancora quel brutto muso della tua
collega di scrivania. Quella che definire stronza è farle
un complimento. Lei ci ha proprio tracce di cacca nel DNA. Così
dedita al lavoro, così solerte. Una apessa sempre pronta
a conficcarti il suo pungiglione nelle carni. La perfida Alexis
di Dynasty. Coriacea.
Mai un coccolone, mai un'influenza, mai una diarrea come si
deve. Ercolina sempre in piedi. E' persino tornata a lavorare
ancora con le croste della varicella impestando tutto l'ufficio.
Lei e la sua mania delle piante. Con gli anni ha messo su un
piccolo dipartimento forestale. Una giungla pluviale di begonie,ficus,
felci, e potus che d'estate fanno salire l'umidità dell'ottanta
per cento.
Il tuo è l'unico ufficio in Torino dove ci nidificano
le zanzare tigre.
Molto
meglio LA BELA TULERA.
La collega sempre perfetta. Quella che prima di uscire di casa
fa il
bagno nell'Opium. Per venire in ufficio si veste come se dovesse
andare a ricevere dalle mani di Pippo Baudo il David di Donatello.
Tutta despansè. Tubino nero delle dimensioni di un cerotto,
tacco a spina di cactus, trucco leggero da Dragqueen, giacchetta
strizzatette, messa in pieghissima. Mai un cedimento.
E tu non ce la fai a starle dietro. Perché a te i capelli
si sporcano,
come a tutti gli esseri umani. Dopo un giorno sembra che ti
abbiano gettato sulla testa una secchiata di lumache, la pelle
ti si ingrigisce come quella del merluzzo, i tacchi ti fanno
gonfiare i piedi, il tubino ha l'orlo scucito da mesi e non
hai mai tempo di rimetterlo a posto. Così arrivi in ufficio
con i jeans slandronati, il maglione prugna che fa i pallini,
e la coda di cavallo moscia. Però la giacca ce l'hai
anche tu e si distingue dalle altre.
Sulla tua ha vomitato tuo figlio mentre lo portavi all'asilo.
Ultima tipologia di collega è la MALATA IMMAGINARIA.
Quella che ne ha sempre una. Se non ha mal di gola, ha mal di
schiena. Se non ha mal di schiena ha mal di testa. Se non ha
mal di testa ha mal d'orecchie.
Insomma.
Una giaculatoria perenne di lamenti. Un catorcio piagato per
otto ore consecutive. Solo per non sentire ancora le sue grida
di dolore ti lasci commuovere e fai anche la sua razione di
lavoro. Poi scattano le cinque e papam. Un grillo. Una locusta.
Devi vedere come salta via dalla scrivania.
Sdeng. Sembra la palla pazza che strumpallazza. Risorge Lazzaro.
Il
miracolo della cartolina bollata. Un consiglio? Non fatevi impietosire.
Sei in fin di vita, collega mia? Ok, ti faccio dire una messa.
Il
pensiero debole di Luciana Littizzetto
Articolo 3
Io col Carnevale ho sempre avuto un rapporto tormentato.
Quasi come col Capodanno. Per due ordini di problemi. Il primo:
L´acetone. Chi ha trascorso gli ameni anni dell´infanzia
in stretta compagnia del biochetasi sa che i dolci di Carnevale
fanno più o meno lo stesso effetto della stricnina.
E non è affatto divertente masticare cracker e bere acqua
non gasata mentre gli altri si sfondano di spugnette fritte
e bibite al gusto di last al limone. E´ orribile dover
rinunciare a quelle aranciate addizionate con gas più
tossici di quelli di Saddam.
Il secondo: La maschera. I miei non mi hanno mai comprato il
costume da damina. Io per anni sono stata mascherata da spagnola.
E´ andata così. Ma fa male. Io volevo perdutamente
foderarmi di raso azzurro.
Volevo la corona di diamanti di plastica. Sognavo i guantini
di pizzo. E invece no. Conciata da spagnola con tanto di neo
nero e nacchere legate alla vita. Ora tu dimmi se io fisicamente
ho anche solo un leggero tratto iberico. Infatti mia madre,
per rendermi credibile, mi ripassava col carboncino le sopracciglia.
Peccato che così somigliassi di più a Bergomi
che a una ballerina di flamenco. Ma bedda madre. Sono pallida?
E allora vestimi da fantasma, da pierrot, fammi la lacrima con
la biro, infilami il risotto nelle tasche che faccio il sushi.
Sorte analoga è toccata alle mie amiche. Bea per anni
è stata vestita da principe azzurro, costume ereditato
dal fratello.
Molly da mongolfiera con un cestino bucato legato in vita e
gigantesco cuscino sulla testa.
Clelia da angelo, con tunica bianca e ali da aquila, lunghe
un paio di metri. Dal peso di quelle maledette ali ancora oggi
soffre di dolori alle vertebre lombari.
Elvira non ha ancora superato lo choc. La mamma la vestiva da
pantera rosa e tutti le strappavano sempre la coda.
Betty andava a scuola vestita da fiore di cartacrespa e tornava
a casa praticamente nuda. L´anno dopo la nonna l´ha
vestita da mummia.
Rosabella da fungo di gommapiuma. Una amanita falloide di un
metro e dieci.
Milly da Marisa Laurito. Non mi chiedete altro.
Persino Ettore, gran pacioccone che sarebbe stato un perfetto
sergente Garcia, ha dovuto arrendersi alla madre e indossare
fino alla prima media il costume da Ape Maja.
Genitori
vi prego. Datemi ascolto. Non fate gli originali. Le bambine
da damina e i bimbi da Batman. O da Zorro. Questo è.
Non c'è dibattito. Io quest´anno mi vesto da arbitro
Moreno.
Mi faccio un paio di lampade e poi mi metto una giacchetta nera
con un assegno della Rai che sbuca dal taschino.
"Assorbenti"
di Luciana Littizzetto
Prima parte
"Io
vorrei conoscere di persona gli ideatori della pubblicità
degli
assorbenti femminili. Secondo me sono tutti uomini.
E sostanzialmente pazzi.
Io non mi do pace. Cercate di fare mente locale.
Secondo loro, noi donne, durante tutto il mese non facciamo
niente. Al massimo quattro salti in padella. Ma in quei giorni,
ci parte una vena e facciamo nell'ordine: la ruota in palestra,
la finale di un torneo di pallavolo, ci aggrappiamo ad un semaforo
e facciamo la giravolta, balliamo il tango, lanciamo gavettoni,
si incastra una merda di aquilone su un albero e saliamo noi
su una scala a riprenderlo, saltiamo persino di schiena in ascensore
per specchiarci di dietro e verificare che non ci siano tracce
sospette (avendo noi messo, naturalmente, un bel paio di pantaloni
bianco latte. Perchè siamo cretine.)
Ma non è orribile? Non è assolutamente brutto
da vedere?
Qualche anno fa ci facevano anche buttare da un aeroplano con
un assorbente tra le sgrinfie, ma, grazie a Dio, ci hanno
fatto perdere questa cattiva abitudine. Il problema comunque
è stato presto risolto. Da paracadutiste siamo diventate
centaure. Eh sì. Se ci gira prendiamo l'assorbente e
ci saltiamo sopra. Come in moto (di media o alta cilindrata,
dipende dal flusso).
C'è invece chi, in quei giorni, fa la restauratrice.
" E va de qua, e va de là, e fa er giro girotondo..."
ma l'importante è che metta l'assorbente con le ali vive.
Che impressione...Ci vogliono far credere che sto robo ha a
che fare con un uccello, ma lo sappiamo che non è la
stessa cosa. Cosa dirà la LIPU?
Ma io mi chiedo: questi signori qui l'hanno mai guardata davvero
una donna in quei giorni? Suppongo di sì. E allora perchè
non
avvicinarsi alla realtà ed ammettere una delle poche
verità consolidate? Le donne in quei giorni stanno male.
A meno che non si gonfino di pillole, naturalmente. Starebbero
tutto il giorno a fare la muffa sul divano, bere tisane e leggere
"Torino Sette". Non fossero che devono alzarsi per
andare a lavorare non muoverebbero un alluce! Non hanno neanche
la voglia di scendere a fare la spesa, figuriamoci di sfinirsi
in palestra. Ma incaponirsi è inutile.
D'altra parte per anni ci siamo fatti consigliare un formaggio
molle da una coreana pur sapendo che da quelle parti non esistono
nemmeno le mucche, figuriamoci se è il caso di insistere!
E' come se chiamassero me a fare la pubblicità del sushi
nell'emittente nazionale di Tokyo!!!"
"Assorbenti"
di Luciana Littizzetto
Seconda parte
Siamo
dentro al tunnel... el el el el... del rimbambimento o o o o.
Ci
risiamo ragazze. Quello della tipa che si lanciava dal biplano
con un assorbente in pugno sembrava solo un brutto ricordo.
E invece: voilà. Sono passati anni e siamo da capo.
Da
qualche giorno in tv è sbocciata una nuova pubblicità
dove noi firferle torniamo ad essere le imbecilli di sempre.
Ci sono così poche certezze nella vita e una di certo
è il fatto che quando le donne hanno a che fare con gli
assorbenti perdono
l'intelletto.Van via di testa. Torna di nuovo il mezzo di trasporto,
è un classico che piace.
Ma
visti gli scioperi continui dell'Alitalia si è preferito
puntare sul treno.
Ora
un manipolo di fulgide cretine, trovandosi tutte insieme in
treno per andare spero affambagno, (e dico affambagno perché
sono una duchessa che usa un linguaggio aulico, ma mi verrebbe
da dare tutt'altra destinazione...) vistosi invaso lo scompartimento
da un improvviso fetore di catrame, per cacciar via l'olezzo
cosa fanno?
Quello
che tutte le donne farebbero.
Tirano fuori dalla borsetta un assorbente e lo sistemano sulle
prese dell'aria dello scompartimento.
Lì, bello appoggiato al bocchettone del riscaldamento.
E ridono.
Ma
cosa ridi? Deficiente. Luminosa stella che risplendi nel firmamento
delle idiote.
«A
volte si fanno le cose senza pensare perché se solo si
pensasse un po' di più...». Infatti.
Se
solo non ti andasse subito in cortocircuito il cervello di cose
da fare ne avresti.
Potresti
tirar fuori dallo zainetto il tester dello Chanel n°5 che
hai rubato sotto Natale da Camurati e spruzzarne un soffio,
per dire... potresti cambiare scompartimento magari, oppure,senti
qua, fartene una ragione.
Manca
mezzo minuto alla partenza del treno. 30 secondi e i lavori
di rifacimento spariranno dalle tue nari per sempre.
No. Meglio l'assorbente che profuma.
Di che non ci è dato sapere. Rabarbaro? Genzianella?
Yang yang? Tropical, mango e papaia? Fremo.
Per
stare sul pezzo, un assorbente profumato al frutto della passione
sarebbe indicatissimo. Speriamo che qualcuno ci pensi.
Cosa
faranno le nostre eroe le prossime puntate?
Appenderanno il pannolino allo specchietto della macchina al
posto dell'arbre magique?
Se
lo legheranno agli alluci per contrastare la puzza di piede
oppure nell'eventualità che qualcuno le sposi, ne faranno
un bouquet e lo intrecceranno ai capelli al posto dei fiori
d'arancio?
Chissà.
Per ora si limitano a ridere a crepapelle. E quando entra il
signore distinto, che ha tutta l'aria di essere un direttore
del personale, squittiscono come topi da granaio.
Lui
le guarda e intanto pensa: faccio bene a non assumerle, le donne...
sono così sceme.
"I
saputelli " di Luciana Littizzetto
Una
categoria umana da evitare accuratamente?
Più delle spine nel branzino?
Quella dei Dotti Medici e Sapienti. Quelli cioè che la
sanno e te la spiegano sempre.
Tu
comunichi una notizia che può variare dall’appuntamento
col gommista all’arrivo della sonda Cassini. E loro? La
sanno già. Anzi. Te la spiegano meglio e nel dettaglio.
Tu prepari il sugo e loro intervengono con pareri e consigli.
Tu racconti agli amici una barzelletta e ti interrompono continuamente
per puntualizzare.
Tu chiedi l’ora e questi partono dal funzionamento della
meccanica interna dell’orologio. Tu
domandi che tempo fa e loro te lo dicono partendo dal Big Ben.
I
Sapientini sono quelli che se devono comperare un paio di scarpe
mandano alla neuro i commessi.
Io
ci ho avuto un fidanzato così.
Il
castigo del cielo acquistava le scarpe e poi le rodava in casa
tutto il giorno successivo per verificare l’effettiva
comodità del prodotto. Ma per non sporcare la suola foderava
il pavimento coi fogli di giornale. Io entravo in casa e dicevo:
«Dài il bianco?». No. Provava le scarpe.
E
poi mi chiamava «Carissima».
Io uno che mi chiama carissima lo prenderei a sprangate.
Carissima
dillo alla tua capoufficia, alla tua zia Giunchiglia di Loano,
alla tua maestra di cha cha cha, ma non a me che dovrei essere
la tua amatissima, semmai...
Ma
dove i Dotti Medici e Sapienti danno il meglio?
Al
ristorante, ovvio.
Prima
cosa chiedono con minuzia gli ingredienti delle specialità
della casa e poi dibattono del perché e del percome il
cuoco cucini il tal piatto in tal modo, mentre loro lo cucinerebbero
in un altro.
E
poi ordinano sempre i piatti senza qualcosa.
E di solito senza qualcosa di fondamentale.
Il
risotto alla milanese senza zafferano, il carpaccio ben cotto
senza parmigiano e la pizza marinara senza aglio.
Insomma..,
a gavu ‘lfià [levano il fiato].
Che
ci facciamo con gente così?
Al massimo una partita a Trivial Pursuit.
Perdendo, naturalmente.
"Io
e Rocco Siffredi" di Luciana Littizzetto
Cari
miei, ci son momenti della vita che lasciano un segno. Altri
ancora una cicatrice. Per me è andata proprio così.
Avete
presente quella trasmissione di RaiTre che si chiama Milano-Roma
? Quella dove due tipi fanno il viaggio insieme parlottando
per ore del più e del meno? Bene. Anch’io
l’ho girata. E sapete con chi? Chi
potevano affiancare a una duchessa qual io sono?
Rocco
Siffredi, che domande...!
Il
più famoso attore porno italiano. Un totem erotico locale.
Certo.
Con me. Che non ho nulla che ricordi anche solo vagamente Ramba
Malù.
Rocco
Siffredi pare sia un fenomeno della natura.
Non
si offendano i maschietti, ma si parla di misure ai confini
della realtà. Roba che potevamo girare i remake di Rocco
e suo fratello o al limite di Uccellacci uccellini. Ventisette
centimetri è tanto. È
come una mensola del tinello, di quelle che ci appoggi sopra
le piante grasse. Un
promontorio della paura. Cape Fear.
Con
lui al fianco mi sentivo serena come l’ultima moglie di
Barbablù. Dicono
che in situazioni imbarazzanti bisogna sforzarsi di essere se
stessi. Ma se non so neanche io chi sono...
Gli
chiedo: «Ma come fai quando devi rigirare la scena? Lo
riponi nell’apposita vaschetta salvafreschezza?»
Fa finta di non sentirmi.
Lo
incalzo. «Quindi sei un libero professionista... non smetti
mai... ti porti anche il lavoro a casa... » Silenzio.
«Usi
il Viagra? La pillola che fa diventare dure anche le lumache?
Mi
han detto che i panettieri non la prendono perché fa
diventare duro anche il pane...» Non ride.
Povero
Rocky horror... mi gira cento porno all’anno, sarà
stanco come una bestia. Magari guido un po’ io.
Un
paio di centimetri mi separano dal suo grande cocomero. O come
lo vogliamo chiamare? Cannone di Navarone? Stelo di giada?
Nibelungo? Stecco ducale? Sturm und Drang? Sacro Aspromonte?
Gli
dico: «Lo conosci quel film porno con Gilbert Bécaud
e Gilbert Belcul: Chi ha spompè la Pompadour?».
Dorme.
Io
faccio quell’effetto lì agli uomini.
"Maschi
distratti, maschi pignoli" di Luciana Littizzetto
Da
una recente indagine sociologica condotta da me stessa su di
un campione strettamente personale risulta che la specie umana
maschile si può verosimilmente suddividere in due grandi
sottogruppi: i maschi distratti e i maschi pignoli.
Quali
i migliori? Difficile dirlo.
Partiamo
dai primi: gli sbadati, gli svaniti, i cloni di Mister Bean.
Non avrebbero tanto bisogno di una fidanzata quanto di un’insegnante
di sostegno. Perdere e dimenticare è l’attività
principe delle loro giornate. Vanno a comperare il giornale
e lo lasciano all’edicola, tolgono l’autoradio ma
la sistemano sul tettuccio, hanno il telefonino ma si scordano
di accenderlo, perdono le chiavi e anche la copia, il portafoglio
e anche la patente, cambiano la batteria dell’auto una
volta al mese perché dimenticano sistematicamente i fari
accesi e tamponano spessissimo perché quando guidano
fanno qualsiasi altra cosa fuorché guidare. E poi si
fanno male continuamente. Si inciampano, si slogano, si sbucciano,
si tagliano... roba da quarta elementare.
I
maschi pignoli non sono certo meno faticosi. Tutt’altro.
Cronometrano
quanto ci mettono da casello a casello, stabiliscono con precisione
millimetrica il consumo della loro auto che di solito è
un cartone, impilano gli asciugamani per sfumatura di colore,
lucidano gli angoli delle scarpe con lo spazzolino da denti,
compilano gli specchietti delle agende dei soldi in entrata
e soldi in uscita segnando anche lo stick e il biglietto del
tram, tengono a memoria la cadenza del ciclo mestruale della
fidanzata e scrivono una S sul calendario per ricordarsi i giorni
in cui hanno fatto sesso. Sempre molto pochi.
Il
massimo è il marito della mia amica Elvira. Pignolo e
maniaco della pulizia. Mentre mangiamo, lui lava già
i piatti. Quelli che stiamo usando. Quando alla moglie incinta
si ruppero le acque, invece di tranquillizzarla la inseguì
con lo spazzolone del Mocio Vileda.
«Però
mi piaci, che ci posso fare? Mi piaci» cantava Alex Britti.
Giusto. Ma è giusto anche quello che mi ha detto l’altro
giorno una mia amica napoletana: «Se metti ‘o rhum
in coppa a ‘nu strunz non diventa ‘nu babà!».
"Su
la testa" di Luciana Littizzetto
C’è
un segnale inequivocabile. Un’azione apparentemente innocua.
Un piccolo gesto che annuncia che... ok, hai cominciato finalmente
a prendere la tua vita tra le mani.
È
quando riesci a dire al tuo parrucchiere che il taglio che ti
ha fatto fa schifo. Che persino la cavia peruviana di tua cugina
è pettinata meglio. Che la frangia non te l’ha
scalata, te l’ha mozzata come la coda di un mulo e che,
per non dare nell’occhio, non ti rimane che ragliare.
Che se quella che ti ha fatto è una tinta, che vada pure
a graffitare le metropolitane di Milano. Che persino le siepi
di agrifoglio tremerebbero all’idea di farsi potare da
lui.
Prima
o poi ci farò un libro: Lo Zen e l’arte di mandare
a stendere il tuo parrucchiere.
Devo
spiegarlo io? I capelli di una donna sono il termometro della
sua anima. Quando una purilla sta male, cosa fa? Va dal parrucchiere.
Prima ancora che dall’analista. Mette quel che ha di più
vuoto tra le mani del coiffeur e si abbandona fiduciosa. E magari,
all’improvviso l’incoscienza, gli dice la fatidica
frase: «Fai tu».
Dire
a un parrucchiere «fai tu» è un po’
come decidere di fare boungee jumping senza elastico. Armato
solo del suo ego colossale, come un boia al patibolo, lui darà
mano alle forbici e taglierà. Tanto.
Quei bei tagli asimmetrici, sfilacciati, impettinabili, portabili
al massimo in sfilata a Milano Collezioni. E mentre mieterà
e falcerà, ti dirà: «Tesoro, sei bellissima..,
ti mancano solo le ali per essere un angelo...», e tu
penserai: “Ho le scapole alate, andrà bene lo stesso?”.
E soprattutto: “Quanto ci metterà mai un capello
a ricrescere? Un mese? Un anno? Un decennio?”.
Meglio così, comunque, che scegliere l’acconciatura
sfogliando quei tremendi giornali che trovi solo dai parrucchieri,
stampati in una specie di segreta tipografia di categoria. Un
misto di teste a pera e tagli da Basil l’investigatopo.
E
poi c’è il tocco finale. Una volta bastava la lacca
a inchiodarti le chiome come Marion Cunningham di Happy Days.
Adesso
si va di gel, olio, schiuma, silicone... E così esci
dal negozio che ci hai i capelli unti come dopo una settimana
di influenza.