La
storia di Iqbal
[Fonte: www.unicef.it]
Era
nato nel 1983 Iqbal Masih e aveva quattro anni quando
suo padre decise di venderlo come schiavo a un fabbricante
di tappeti. Per 12 dollari.
E' l'inizio di una schiavitù senza fine: gli
interessi del "prestito" ottenuto in cambio
del lavoro del bambino non faranno che accrescere
il debito.
Picchiato, sgridato e incatenato al suo telaio, Iqbal
inizia a lavorare per più di dodici ore al
giorno. E' uno dei tanti bambini che tessono tappeti
in Pakistan; le loro piccole mani sono abili e veloci,
i loro salari ridicoli, e poi i bambini non protestano
e possono essere puniti più facilmente.
Un giorno del 1992 Iqbal e altri bambini escono di
nascosto dalla fabbrica di tappeti per assistere alla
celebrazione della giornata della libertà organizzata
dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato
(BLLF). Forse per la prima volta Iqbal sente parlare
di diritti e dei bambini che vivono in condizione
di schiavitù. Proprio come lui. Spontaneamente
decide di raccontare la sua storia: il suo improvvisato
discorso fa scalpore e nei giorni successivi viene
pubblicato dai giornali locali. Iqbal decide anche
che non vuole tornare a lavorare in fabbrica e un
avvocato del BLLF lo aiuta a preparare una lettera
di "dimissioni" da presentare al suo ex
padrone.
Durante la manifestazione Iqbal conosce Eshan Ullah
Khan, leader del BLLF, il sindacalista che rappresenterà
la sua guida verso una nuova vita in difesa dei diritti
dei bambini. Così Iqbal comincia a raccontare
la sua storia sui teleschermi di tutto il mondo, diventa
simbolo e portavoce del dramma dei bambini lavoratori
nei convegni, prima nei paesi asiatici, poi a Stoccolma
e a Boston: «Da grande voglio diventare avvocato
e lottare perché i bambini non lavorino troppo».
Iqbal ricomincia a studiare senza interrompere il
suo impegno di piccolo sindacalista.
Ma la storia della sua libertà è breve.
Il 16 aprile 1995 gli sparano a bruciapelo mentre
corre in bicicletta nella sua città natale
Muridke, con i suoi cugini Liaqat e Faryad. «Un
complotto della mafia dei tappeti» dirà
Ullah Khan subito dopo il suo assassinio. Qualcuno
si era sentito minacciato dall'attivismo di Iqbal,
la polizia fu accusata di collusione con gli assassini.
Di fatto molti dettagli di quella tragica domenica
sono rimasti poco chiari
Con i 15 mila dollari del Premio Reebok per la Gioventù
in Azione ricevuti nel dicembre '94 a Boston, Iqbal
voleva costruire una scuola perché i bambini
schiavi potessero ricominciare a studiare...
-
Guarda il video della coraggiosa lotta di Iqbal
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Chi
uccide un bambino spegne il sorriso di una fata
di Alessio
Di Florio
Quante volte da bambini avevamo incubi? Tante,
tantissime. E spesso erano gli stessi che ci perseguitavano
tutte le notti. Spesso sognavamo i fantasmi, le streghe,
qualcuno che ci voleva fare del male. O degli orchi.
Poi crescendo scoprivamo che i fantasmi non esistono
e che in realtà quelle che noi credavamo streghe,
erano simpatiche e arzille vecchiette. E gli orchi?
Gli orchi esistono?
Ogni
anni a Pasqua i cristiani di tutto il mondo ripetono
lo stesso rito da millenni: celebrano la Risurrezione
del Cristo. Donne e uomini, adulti e bambini si accostano
alla S. Messa per ricordare l'evento su cui si basa
la Fede cristiana. Alcuni anni fa in un luogo tanto
lontano, il Pakistan, anche un bambino, Iqbal, stava
tornando dalla Messa di Pasqua. Iqbal era un bambino
speciale, non era come tutti gli altri. Era molto
più maturo dei suoi 11 anni, e per quell'età
mostrava una chiarezza d'intenti che è difficile
trovare anche in molti adulti. Mentre era vicino casa
cade a terra, sanguinante. Cosa è accaduto?
Iqbal non riesce a dire neanche una parola e rende
la sua bella e pura Anima a Dio. E muore in una tragica
mattina di Pasqua del 1995. In molti diranno che da
quel giorno i bambini del mondo sono più soli.
Hanno perso il loro eroe. Ma perché l'hanno
perso? Perché è accaduto ciò?
Gli orchi sono venuti a riprenderselo. Ma allora esistono?
Ripercorriamo
gli 11 brevi ma intensi anni di questo straordinario
ragazzino, che voleva crescere e diventare avvocato
per aiutare i bambini del mondo. Iqbal nasce in Pakistan
da una famiglia poverissima. Ogni giorno per andare
avanti era un'impresa. E con una bocca in più
da sfamare è ancora più difficile. Un
bel giorno, o forse è meglio dire brutto, ma
dopo vedremo perché, un signore distinto e
simpatico bussa alla loro porta. Fa domande, è
curioso e ad un certo punto fa una proposta ai Masih:
voi siete molto poveri e non sapete cosa vi riserverà
il futuro, io ho molte ricchezze, vorrei portare con
me Iqbal e farlo crescere come fosse mio figlio. Lo
accudirò, lo farò studiare e gli garantirò
un avvenire. Tutte cose che i coniugi Masih non potevano
garantire al piccolo Masih. Il signore aggiunge poi
che, per questo, è pronto a pagare i Masih
con moltissimi soldi. A questo punto, anche se a malincuore,
accettano. Iqbal ha 4 anni e lascia i genitori per
andare con quel signore. Sembrerebbe una storia a
lieto fine, con il piccolo che cresce e diventato
il figlioccio del signore diventa anche lui ricco
e importante. Ma ...
Ma
una volta a casa del signore, Iqbal scopre una amara
verità. Viene incatenato e costretto per 12
ore al giorno a confezionare tappeti. Tappeti raffinati
e decorati, come quelli che molti ostentano nei loro
salotti. Se fossimo bambini a nostra volta potremmo
tranquillamente definire il padrone di Iqbal un orco.
Come quelli dei nostri incubi. Incubi che per Iqbal
diventano realtà. Per molti anni Iqbal viene
costretto a lavorare per l'orco, con le sue manine
deve intrecciare i fili del tappeto. E guai a sbagliare,
le punizioni sono tremende!!!! Come Iqbal moltissimi
altri bambini, migliaia si trovano nella stessa situazione
in Pakistan e in altri Paesi. Ma allora la storia
di Iqbal perché è diversa da quella
degli altri?
Per moltissimi bambini l'incubo non è ancora
finito, e forse non finirà mai. Ma allora non
avremmo nulla da raccontare. E invece ...
E
invece molti anni dopo un giorno, mentre il padrone
non c'è, Iqbal si libera delle catene e scappa.
Scappa lontano, via dall'orco che gli ha rubato l'infanzia
e i suoi anni migliori. Ma il mondo non è fatto
solo di uomini cattivi e crudeli come il padrone
di Iqbal. Ci sono tantissimi uomini stupendi e buoni,
onesti e giusti. Potremmo quasi definirli maghi, in
contrapposizione agli orchi. Ma loro non fanno magie.
Almeno così a noi sembra. Iqbal incontra alcuni
di questi uomini, che riuniti in un comizio sindacale,
stanno parlando. E parlano di lavoratori sfruttati,
di diritti negati. Iqbal ascolta, non capisce molto,
ma decide di parlare anche lui. Capisce che stanno
parlando di persone che hanno vissuto la sua stessa
esperienza. Da quel giorno comincia la magia delle
persone buone. La denuncia di Iqbal scuote gli animi
di moltissimi e giunge fino alle Nazioni Unite. Lì
dove i Potenti della Terra si riuniscono. E Iqbal
chiede quello che tutti i bambini dovrebbero avere:
chiede di poter studiare, di non lavorare, di poter
giocare e crescere sereno. Come ogni bambino. E lo
chiede a nome di tutti i bambini della terra. Di cui
lui, ormai cresciuto, pensate ha 11 anni, è
diventato il supereroe. E il nostro eroe provoca un
terremoto, a New York come a Islamabad. Ma questa
volta è un terremoto che non distrugge, ma
costruisce. Costruisce giustizia e sogni. I sogni
dei bambini che vogliono essere bambini. Il nome di
Iqbal diventa famoso. E moltissimi orchi vengono scoperti,
moltissimi bambini vengono liberati. La magia è
realizzata. Iqbal, piccolo eroe, ha sconfitto gli
orchi. Sta crescendo e decide di studiare. Studiare
tantissimo perché da grande vuole essere avvocato.
Per difendere e aiutare tutti i bambini del mondo.
E restituire loro quello che i maghi hanno restituito
a lui. Ma la storia sarebbe troppo bella se finisse
così. Iqbal grande che salva i bambini e sconfigge
gli orchi. E noi non saremmo qui a parlare di lui.
Purtroppo il 16 aprile 1995 al ritorno dalla Messa
di Pasqua gli orchi decidono di ucciderlo. La mafia
dei tappeti, quella radicata e criminale organizzazione
di orchi senza scrupoli che lucra sull'infanzia dei
bambini, decide che Iqbal è scomodo. Rovina
i loro affari. E lo uccidono.
Ma la storia di Iqbal non finisce quel giorno. Continua
in tutti coloro che hanno ascoltato e ripreso la sua
denuncia. Ed oggi moltissimi uomini, maghi di bontà,
continuano la sua opera. Iqbal non potrà diventare
avvocato per aiutare i bambini. Ma noi siamo qui,
e il viso dolce e gli occhi tristi di Iqbal ci chiamano.
A proseguire la sua opera. Perché per occuparsi
dei bambini sfruttati non ci sia bisogno di un nuovo
Iqbal. Ricordiamocelo quando compreremo tappeti di
dubbia provenienza la prossima volta. Ogni volta che
compreremo quei tappeti, avremo offeso il ricordo
di Iqbal. E avremo contribuito a proseguire la catena
di egoismo e sfruttamento che lo ha ucciso. E sfrutta
tantissimi bambini ancora oggi.
Note:
Il
titolo di questo articolo si riferisce ad un episodio
del libro Le avventure di Peter Pan. In questo episodio
il folletto dice che ogni volta che un bambino sorride
per la prima volta nasce una fata. Ed ogni volta che
lo spegniamo una fata muore. Iqbal era appunto un
bambino che amava la vita. Uccidendo lui, e il suo
sorriso, abbiamo ucciso una fata. Sfruttando bambini
spegniamo il loro sorriso. E uccidiamo le fate. I
bambini, la loro gioia, appunto i loro sorrisi, sono
i mattoni del mondo migliore. Giusto, pacifico e solidale
che Iqbal voleva costruire. Costruito con le fate,
ovvero i sentimenti puri e belli che solo i bambini
possono regalarci.
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Ali
per volare
(dedicato a Iqbal Masih) di Rino Martinez
Sui
marciapiedi, bambini di strada, camminano lenti senza
speranza
le mani tremanti e il volto scavato di chi non ha
niente
chiedono amore a chi lo sa dare,
un pezzo di pane, magari un sorriso, sincero
due mani tese alla vita, prima di rassegnarsi a restare
da soli.
Piccoli schiavi venduti al mercato,sono milioni di
facce, di occhi innocenti, nessuno li sente?!
alcuni soldati, altri spacciano droga,
storie di fame, violenze e ingiustizie, d'inganni
nei loro sguardi c'è orrore, c'è tanta
tristezza, non entra mai il sole
un'infanzia è negata senza ali per volare
troppe le vite spezzate, sfruttate i bambini hanno
diritto di sognare.
Iqbal
Masih, il tuo sorriso arriverà, in ogni parte
del mondo
dove i bambini di strada, sognano un angelo accanto.
Quanti non hanno la forza di urlare, subiscono e piangono
dentro,
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un pò di sereno,
mai più spine, solo ali per volare.
Iqbal sognava una vita diversa, fatta di uomini giusti
e amore sincero
ma un giorno, qualcuno, ha deciso di spegnere la sua
breve vita.
Iqbal è una luce che illumina il cielo,
per milioni di bimbi che aspettano un dono importante
mai più ferite che lasciano il segno, mai più
fame o sete
mai più guerre,violenze, colla…….
mai più!
Iqbal Masih, il tuo sorriso arriverà, in ogni
parte del mondo
dove i bambini di strada, sognano un angelo accanto.
Quanti non hanno la forza di urlare, subiscono e piangono
dentro,
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un po di sereno,
mai più spine, solo ali per volare.
Quanti, non hanno la forza di urlare, subiscono e
piangono dentro
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un pò di sereno
mai più spine, solo ali per volare… Sui
marciapiedi bambini di strada
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Quando capirete che siamo solo bambini?
di Chiara Zamana
In molti si battono per i nostri diritti
Ma evidentemente non abbastanza
...
Quando capirete che vogliamo essere solo bambini?
Quando mostrerete quel minimo di dignità sufficiente
a dire "BASTA"?
Vogliamo solo giocare con il pallone,
sognando di poter un giorno segnare il goal decisivo,
non essere costretti a cucirlo
...
Vogliamo rotolarci in un soffice tappeto,
sognando un grande prato fiorito mentre fuori piove,
non essere costretti a tesserlo
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VIA
IQBAL MASIH
Un
racconto di Maria Zimotti
Via
Iqbal Masih è un punto d’arrivo.
Il risultato delle sperimentazioni didattiche degli
ani 70 nei laboratori delle aree metropolitane è
condensato nel nome di questa via che si trova all’ingresso
di uno scorcio grigioverde della pianura padana.
Carla sta percorrendo la via della sua giornata e,
nelle pause forzate davanti ai semafori, scampoli
degli anni 70 che l’hanno vista bambina si affacciano
alla memoria.
Stanno, sbiaditi sui muri di cemento, i misteriosi
graffiti che l’attiravano quando, bambina in
loden, in compagnia delle nuvole di vapore che le
uscivano dalla bocca, andava in giro per commissioni
nei pomeriggi nebbiosi.
Allora i bambini facevano di queste cose: camminavano
liberi per strada, non erano ostaggi di mamme ansiose
“perché c’è da aver paura”,
spauriti sotto il peso di zainetti multicolori.
“L’utero è mio e lo gestisco io”,
“Né puttana, né madonna, solo
donna” e disegno di una donna che sventolava
una bandiera pesante che sembrava avere il desiderio
di sfondare il cielo: questo stava scritto sui muri.
Era raro allora vedere stranieri in giro e il primo
uomo di colore che vide in uno di quei pomeriggi a
spasso suscitò in lei il desiderio di conoscenza
dell’umanità che si è abbeverato
tra le mura di cemento armato della biblioteca di
via Iqbal Masih.
Iqbal Masih è il simbolo del desiderio di riscatto
di tutti i bambini del mondo.
I grandi occhi di Iqbal e di tutti i bambini che reiterano
i loro corpi scarni nel supermercato mediatico del
dolore assomigliano agli occhi dei ragazzi di periferia
degli anni 70.
Occhi neri come quelli di Rocco che giocava tra le
montagne dei detriti dei palazzi in costruzione, dove
si disperdeva il ricordo del sole accecante del sud
che l’aveva visto nascere e che gli aveva consegnato
in dote il passo svelto di un’infanzia per strada.
A volte certe immagini funzionano da detonatori dei
ricordi che riportano nette sensazioni passate che
ristagnano sulle cose.
Così un pomeriggio d’autunno di Carla
adulta ha, per il miracolo di quell’edificio
immutato tra i campi rottamati della pianura suburbana,
lo stesso sapore dei pomeriggi in cui uno strano languore
la invadeva nel silenzio di quella biblioteca che
profumava di nuovo.
Posteggia l’auto nel parcheggio deserto e scende
per le scale che portano nel seminterrato della scuola
media dove si trova la biblioteca comunale.
Dentro c’è sempre lo stesso bibliotecario
di allora, solo che adesso è alla prua di una
scrivania computerdotata e naviga in quel pozzo senza
fine che è Internet.
Il silenzioso pulsare e trafficare dei bytes si aggiunge
ai miliardi di parole silenti compresse negli scaffali.
“Ciao Rocco, hai poi trovato il prototipo del
proletario da esibire nei tuoi porta a porta di militante
di Lotta Comunista?”.
Carla squarcia il silenzio denso di concentrazione
di Rocco il bibliotecario con queste parole tutte
d’un fiato che lo fanno sussultare sotto il
maglione ingobbito dalla posizione di rapace topo
della Rete.
Quando si volta a guardarla nei suoi occhi si agitano
ancora le immagini fluorescenti del monitor e fatica
un po’ a metterla a fuoco nel suo tailleur grigio
e nel suo sorriso ironico.
“Ciao Carla, quanto tempo!”.
Sbiadita la faccia, grigi i capelli, qualcosa di triste
o trasandato nell’aspetto, Rocco non ha niente
di quell’immagine nitida che Carla conserva
della prima volta che l’ha visto.
Lei era una bambina di otto anni.
Stava alla finestra in un crepuscolo d’autunno.
Si sente ancora gli occhi pieni di quello sguardo
fiducioso e frizzantemente curioso con cui guardava
le distese dei campi e le parvenze di case sull’orizzonte.
Sarà che anche adesso è ora di cena
come allora ma ricorda ancora il profumo del brodo
di manzo che arrivava dalla cucina.
Con questo languore addosso aveva visto questa specie
di orco misterioso che con i suoi irraggiungibili
e misteriosi diciotto anni fumava una sigaretta curvo
e pensieroso.
La conoscenza di Rocco era proseguita con sporadici
incontri dovuti al fatto di vivere nello stesso quartiere.
Immagini legate sempre a dialoghi frenetici con i
suoi coetanei, di sgomento che si agitava nei suoi
occhi neri, a volte tristi, a volte furiosi.
Dieci anni dopo, anche Carla aveva diciotto anni e
fu tra le prime a visitare la biblioteca di via Iqbal
Masih appena inaugurata dove lo rincontrò come
bibliotecario.
Nei pomeriggi in quella biblioteca il tempo si dilatava
e si riempiva di parole che erano l’elaborazione
di tutte le letture di entrambi con una compenetrazione
di anime che non aveva nulla da invidiare a un qualsiasi
rapporto sessuale il cui desiderio sembrava sempre
aleggiare nel tepore silenzioso.
Non successe mai niente in quei pomeriggi ma l’immagine
di Rocco aveva sempre accompagnato Carla negli anni
seguenti come un promemoria, come qualcosa d’incompiuto.
“ Ti ricordi quando ti dicevo: - Tu non lo sai
ma anche il semplice fatto che adesso esci, sali su
un tram e timbri il biglietto è un atto politico!-“.
“ Già, io questa cosa non l’ho
mai capita. Ci ho pensato, sai? Ci penso ancora adesso.
Mi dico: ecco perché la sinistra è allo
sbando. Non è stato risolto l’enigma.
Allora ero una ragazzina. Era normale che non capissi.
Ma adesso che ho mangiato dall’albero della
conoscenza, adesso che le svastiche e le stelle a
cinque punte che vedevo disegnate sui muri assieme
a particolari anatomici a me sconosciuti non sono
più oscuri come ideogrammi giapponesi, avrei
dovuto capire perché timbrare il biglietto
è un atto politico.”.
Il silenzio si espande di nuovo intorno a loro e semplicemente
per il momento si accontentano di raccogliere quella
sospensione senza tempo che sta in quel luogo, dove
si addensano le eterne possibilità della conoscenza.
Quando Carla esce le sensazioni del passato sono evaporate
e la naturale aria umida mitteleuropea le sembra più
pesante, carica dei tempi bui che incombono e delle
disillusioni.
Un
altro giorno nasce.
La luce del sole ha vinto la lotta con il cielo pesante
di Lombardia e illumina le vestigia dell’era
del calcestruzzo che stanno imponenti con le loro
ardite architetture sopra le miriadi di villette a
schiera che si articolano come grossi lombrichi a
mangiare nuovo territorio.
Grossi carapaci di lamiera solcano le strade.
I centri commerciali, veri templi della nostra epoca,
sono serviti da appositi svincoli stradali che come
passatoie portano agevolmente in queste casbah ordinate
e luccicanti.
Cosa c’è di nuovo oggi?
Una giornata di ferie che comincia nell’aria
fredda e limpida del mattino di sole dopo una notte
in cui Carla è ritornata nel nucleo caldo dell’inconscio
infantile.
Ciò che le è rimasto è una sensazione
di tensione verso il futuro che non sentiva da tempo,
qualcosa che la spinge meccanicamente a camminare,
a respirare.
La luce implacabile le presenta gli scenari della
sua infanzia e della sua adolescenza come rovine di
un teatro antico dove si sentono ancora gli echi di
un grande spettacolo che non è più.
I recinti degli oratori dipinti da preti operai folgorati
sulla via del Concilio Vaticano II hanno perso il
colore.
Il consultorio era la porta misteriosa da varcare
una volta diventata donna, il posto tanto raccomandato
dagli opuscoli sui metodi contraccettivi che le giovani
professoresse femministe si premunivano di far circolare
tra i banchi della scuola media.
Ora sta lì, retaggio di quei “formidabili
anni”, con una dottoressa finta bionda dai capelli
disfatti che sulla soglia si beve un po’ di
sole e non ha niente da fare.
In questa giornata di revival Carla entra per fissare
un appuntamento ma soprattutto per rimettere piede
in quel posto dopo 10 anni.
Non ci era più tornata perché aveva
ceduto anche lei al luogo comune che la sanità
pubblica offre un servizio scadente.
Anche qui, le meccaniche parole da “servizio
sociosanitario nazionale” hanno un che di anacronistico
per occhi martellati da televisivi, rassicuranti “
beautiful doctors”che cercano di farsi strada
nei desideri manageriali delle nuove politiche privatizzanti
della Sanità.
Rocco la sta aspettando con la sua Uno che presenta
gli status symbols del travet di sinistra: la patina
di polvere e l’adesivo di Radio Popolare che
recita Qui nessuno è straniero.
Nel
lungo corridoio del centro commerciale c’è
ancora poca gente.
Molti negozi sono ancora chiusi e si sente solo il
rumore delle macchine per il caffè che sfornano
cappuccini per i commessi appena arrivati.
Rocco e Carla sono seduti ad un tavolino
Con ancora addosso il tepore del letto Carla si guarda
intorno e con un tono di voce quasi neutro ma in cui
è possibile sentire il tonfo sordo della rassegnazione
dice:
“Siamo qui dove si realizza la vera dittatura
democratica dei nostri tempi. Il consumatore servo
e padrone. Io ho l’impressione che galleggiamo.
Non so dirti altro.”.
“ Anch’io mi sento dentro un circolo vizioso.
Fedele
a quanto ti dicevo allora faccio il mio atto politico
scegliendo un prodotto anziché un altro ma
mi sembra che tutto questo non sia altro che un increspare
le onde. E’ tutto sbagliato e non c’è
via d’uscita.”.
“ Via Iqbal Masih, questa parola mi risuona
da ieri come un condensato di solitudine e speranza.
Per quei misteri che accadono a volte al mattino,
quando vedi materializzarsi ciò che hai sognato
ma non ricordi, questa mattina ho visto, passando
da un’officina che si trova vicino a casa mia,
un ragazzo che lucidava una Mercedes.
L’etnologa che è in me ha riconosciuto
nella sua pelle scura e liscia, nei capelli neri e
le sopracciglia folte la sua provenienza dal subcontinente
indiano.
Si materializzavano in lui le sensazioni che mi avevano
accompagnato durante la notte: solitudine e speranza.
Erano nate in me dal ricordo di un libro che avevo
letto quando avevo 13 anni: parlava dei meninos de
rua brasiliani.
Nella mia libreria a casa l’ho messo vicino
a un libro di Gianni Rodari perché il primo
rappresenta la solitudine e il secondo la speranza.
E’ questo lo spirito dell’infanzia che
ho sentito rinascere ieri quando sono venuta in biblioteca
dopo tanto tempo.
Il ragazzo che ho visto stamattina è come tutti
i bambini del mondo, come forse sono sempre tutti
i bambini del mondo: soli, con un eterno ripetersi
di speranze che cercano di sopravvivere in un mondo
di adulti voraci.
Mi ha colpito il modo in cui lucidava la macchina
di un insaziabile adulto occidentale.
Niente di ossessivo, ma tanta attenzione.
Immaginavo il proprietario dell’auto, un tamarro
in doppiopetto che ci sarebbe salito su e sarebbe
andato via sgommando senza neanche immaginare i gesti
naturalmente regali di quel ragazzo.
Gesti cui non era da meno la fierezza dei suoi occhi
quando ha alzato lo sguardo verso di me sentendosi
osservato.
“Il mondo salvato dai bambini”.
“Già, come dalle donne. Avete combinato
guai per secoli e adesso volete che siamo noi a salvarvi.
Ho sentito anche questo ultimamente.
Parole vuote.
Niente che valga come il silenzio e la dignità
di quel ragazzo ed è tutto quello che ha lo
spirito infantile e che noi abbiamo perso.
Come diceva Nietzsche l’infanzia è il
periodo dell’uomo in cui egli si trova più
lontano dalla bestia.”.
“Sei cresciuta proprio bene, Carla.”.
“Buone letture e buoni consigli” gli dice
sorridendo affettuosamente.
Anche questa volta non succede niente, nemmeno quando
il freddo li punge e li stringe più vicini
quando sono fuori dal centro commerciale.
Possono sentire il rumore del motore della giornata
che comincia a scaldarsi con le saette delle automobili,
gli orsicamion che sfiatano fumi neri, colpi lontani
di qualche cantiere.
Camminano a piedi fino alla scuola media.
Si siedono su una panchina del percorso della pista
ciclabile.
Non ci sono più le macchine che poche ore prima
arrivavano a frotte scaricando velocemente bambini
che meccanicamente ricevevano baci veloci e con la
testa china entravano nell’orgoglioso edificio
civico che si sta sgretolando e che ha perso la pomposa
speranza dell’alba della Repubblica.
I pensieri che i bambini fanno gettando lo sguardo
dalle grandi finestre delle aule dove anche loro sono
stati bambini sono sconosciuti a Carla.
Chissà se lo sguardo verso l’orizzonte
è accompagnato dalla fiducia che lei sentiva
addirittura incontenibile in quella sera di vent’anni
prima.
Le immagini, i suoni della martellante attualità
rotolano nei loro occhi e si confondono con i paesaggi
artificali dei videogames in giornate scandite da
trilli di telefonini e bip elettronici.
Carla è sicura che i muri della scuola si nutrono
dei progetti di tutti i bambini che sono transitati
lì dentro e parlano alla gente distratta che
non si ferma a guardare.
La targa della via Iqbal Masih sta lì in balia
dello smog presso uno dei tanti svincoli del mondo
che corre.
Sotto le aule una caldaia silenziosa alimenta un altro
motore, quello della comprensione della vita.
Pacifica sta lì, la biblioteca di via Iqbal
Masih.
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